Per alcuni le limitazioni sono diventate così importanti da spegnere il lumino o addirittura rendere il periodo natalizio senza senso oppure insopportabile, da dimenticare o non vivere proprio. La pandemia è un evento terribile, ma credo che sia in atto una sfida ben più profonda: dare senso a questo Natale. Non è materia da Dpcm, ma è questione di mente e cuore. L’intervento di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma
“Chi abita sull’abete
tra i doni e le comete?
C’è un Babbo Natale
alto quanto un ditale.
Ci sono i sette nani,
gli indiani, i marziani.
Ci ha fatto il suo nido
perfino Mignolino.
C’è posto per tutti,
per tutti c’è un lumino
e tanta pace per chi la vuole
per chi sa che la pace
scalda anche più del sole”.
È una delle indimenticabili poesie-filastrocche di Gianni Rodari (1920-1980) sul Natale. Forse, a noi, dice ben poco, tra divieti di movimenti, limitazioni di posti e crisi sanitaria ed economica. Forse, invece, dice molto perché a Natale “C’è posto per tutti…”.
Nei Paesi scristianizzati – o secolarizzati, come dir si voglia – il Natale è un posto per tutti: credenti e non credenti, donne e uomini di altre religioni e agnostici. Per tutti “c’è un lumino”, scrive Rodari. È un “lumino” personale, di gruppo, storico o culturale, religioso o meno. Si chiama “senso” ed è quello che fa la festa, anche ora, cioè nelle limitazioni necessarie e pesanti con cui vivremo questo Natale. Eppure, per alcuni, le limitazioni sono diventate così importanti da spegnere il lumino o addirittura rendere il Natale senza senso oppure insopportabile, da dimenticare o non vivere proprio. Per quanto la pandemia sia un evento terribile, credo che sia in atto una sfida ben più profonda: dare senso a questo Natale. Non è materia da Dpcm, ma è questione di mente e cuore.
Ci può aiutare la lezione dei Greci; questi utilizzavano due termini per indicare la felicità: eutuchia ed eudemonia (J. Annas; M.C. De Angelis). La prima parola si lega alla nozione di caso, come qualcosa che accade e ci raggiunge all’improvviso per poi ritrarsi (eu–tyche); in inglese sarebbe l’happiness, che accade (happen) casualmente, un bene per caso, che ci è dato in sorte. E se pensiamo a questo Natale le previsioni non sono molto rosee, o almeno sono terribilmente limitative, soprattutto in coreografia e feste pubbliche. Bene hanno fatto quei sindaci che hanno rinunciato alle luminarie per devolvere le risorse ai poveri e ai disoccupati. Questo Natale non ha bisogno di coreografia, ma, ora più che mai, di sostanza. Questo Natale è diverso. Facciamocene una ragione! Ma non per questo da non festeggiare o dimenticare. Anzi.
Il secondo termine greco per esprimere felicità – eudaimonia – si riferisce a una felicità che non accade per caso ma si costruisce, restituendo alla persona una precisa responsabilità nella costruzione di una vita felice, di un Natale felice, nonostante le negatività in noi e attorno a noi. Secondo questa accezione la felicità diviene nella misura in cui sviluppo, realizzo e porto a compimento la mia natura. Lungi dal risolversi in ciò che ci accade, si realizza effettivamente in ciò che facciamo accadere, di cui siamo autori. Deriva da un lavoro che esercitiamo su noi stessi e che ci mette nella condizione di trasformare in bene stabile gli eventi fortuiti della vita: capaci, dunque, non solo d’attingere la felicità, ma anche di mantenerla e diffonderla a chi ne ha meno (S. Natoli). E questa felicità riserva un posto a tutti. La porta è stretta, ma non impossibile.
È molto triste – è il caso di dirlo – vedere come credenti e non credenti, molto spesso, lascino la scena culturale e mediatica ai nuovi atei devoti e agli ignoranti di sempre, che discettano su orari della veglia natalizia, senza capire un’acca di quello che dicono, né tantomeno essere mai stati a messa. Che squallore! Natale non appartiene a questa gente, perché loro sono alla ricerca dell’evento, della notizia, del colpo di fortuna e sono in crisi perché non ci saranno feste e festini, sciate e bagordi.
Natale appartiene a chi costruisce il suo futuro, con responsabilità e lungimiranza, credente e non. Natale non appartiene a chi abita, scrive Rodari, “sull’abete, tra i doni e le comete”; ma a chi abita, invece, tra chi soffre la malattia o le ristrettezze economiche, chi assiste negli ospedali (anche fino al dono della propria vita), chi lavora seriamente nelle istituzioni per limitare i danni della pandemia, chi sa che il calore di una famiglia è prima di tutto interiore. E i cristiani hanno il dovere di ricordare questo: il Cristo nasce per salvare, per moltiplicare la gioia, unendola a vigilanza e responsabilità, nasce per allargare quotidianamente la mia cerchia, per “arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino a me” (papa Francesco).
E il perché lo scrive Rodari:
“C’è posto per tutti,
per tutti c’è un lumino
e tanta pace per chi la vuole
per chi sa che la pace
scalda anche più del sole”.