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Brexit, no deal è meglio di bad deal. L’analisi di Zecchini

Nel corso dei negoziati è apparso sempre più chiaro che da parte britannica era irrinunciabile mantenere la più grande autonomia di politica ed emanciparsi dal giudizio di istituzioni europee. Realtà che confligge con i capisaldi fondanti del processo d’integrazione europea, che si basa sulla condivisione di benefici,  regole ed istituzioni valide ugualmente per tutti

Malgrado le dichiarazioni ufficiali delle parti di voler negoziare fino all’ultimo giorno un accordo che regoli le loro relazioni dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, alla fine bisognerà arrendersi alla realtà, ovvero che in questo momento storico entrambe non possono raggiungere un accordo. Il no deal era insito nelle ragioni stesse della decisione del Regno Unito (RU) di uscire dall’Unione e questo risultato alla fine converrebbe tanto ai britannici che agli europei. Sin dall’inizio del negoziato aleggiava l’illusione di entrambi che sarebbe stato possibile superare le divergenze all’origine di una decisione senza precedenti, ma sui cardini fondanti di un paese e di una unione, quale quella europea, non si possono fare compromessi.

Quali i motivi? Da parte britannica è mancato nei secoli uno spirito di aggregazione a livello europeo, in quanto la sua storia moderna si è svolta all’insegna della diversità da quello da loro chiamato “il continente”. Loro sono fieri di questa diversità, che nei secoli ha permesso al popolo di un’isola nell’Atlantico di sollevarsi dalla pochezza delle loro risorse attraverso l’ingegno e lo spirito d’intraprendenza e d’innovazione. Attraverso gli scambi commerciali e la scelta di prendere grandi rischi, anche in campo tecnologico, sono riusciti a sviluppare ricchezze e perfino a formare un impero fondato sullo sfruttamento delle risorse del mondo. In ciò sono stati sostenuti da una particolare forma di democrazia e da istituzioni improntante alla migliore gestione della cosa pubblica.

Il costante riferimento ai mercati, certamente non limitati a quello interno ma estesi al mondo, ha fatto da molla e da leva per il loro benessere. Quando iniziò a costituirsi per gradi un mercato europeo ristretto a pochi paesi, il loro atteggiamento non fu invero così favorevole, ma quando quel mercato mostrò di essere in grado di divenire una grande area di scambi senza troppi ostacoli il suo interesse a farne parte divenne inevitabile. La loro adesione alla Comunità Europea è stata sempre una partecipazione a un grande mercato piuttosto che a un grande disegno di integrazione tra economie e tra sistemi nazionali come è divenuta. In questo spirito hanno sempre fatto da freno all’avanzare in questa evoluzione, salvo accettarla in alcuni settori in cui appariva conveniente e restarne fuori laddove il loro interesse a mantenere una grande libertà d’azione appariva più conveniente. In questa logica hanno rifiutato di partecipare, ad esempio, all’unione monetaria e al capitolo sociale delle politiche dell’UE che ne avrebbero fortemente limitato l’autonomia, ma hanno spinto per la sempre più estesa liberalizzazione degli scambi di beni e di servizi all’interno del mercato europeo e con il resto del mondo. Un esempio: il loro maggiore contributo alla costruzione europea sta nella proposta della Thatcher di creare un mercato unico in cui si potesse commerciare senza alcuna restrizione, né vincolo di omologazione dei prodotti.

Quando la costruzione europea è andata troppo oltre il mercato e poneva non pochi condizionamenti alla loro libertà d’azione e qualche costo aggiuntivo in termini finanziari, una maggioranza di britannici ha votato per uscirne, pur conservando un gran interesse a mantenerne alcuni benefici come l’accesso al mercato unico ed a quelli finanziari europei, e la cooperazione in alcuni importanti campi, quali la sicurezza e i progetti di Ricerca e Sviluppo.

Si può giudicare quest’atteggiamento in vario modo, ma in queste scelte conta molto il retaggio storico e la cultura nazionale. Date queste premesse, nel corso dei negoziati è apparso sempre più chiaro che da parte britannica era irrinunciabile mantenere la più grande autonomia di politica ed emanciparsi dal giudizio di istituzioni europee, in particolare della Corte di Giustizia Europea in caso di contenziosi.

Questa realtà confligge nettamente con i capisaldi fondanti del processo d’integrazione europea, che si basa sulla condivisione di benefici, nonché di regole ed istituzioni valide ugualmente per tutti, anche se comportano costi di aggiustamento e rinunce a frazioni di sovranità nazionale. Integrazione economica implica, infatti, avanzare verso un corpo unico di disciplina delle attività aperte alla concorrenza dei paesi partner e andare oltre nella direzione di accrescere le interconnessioni tra gli stessi e di cooperare nella formulazione ed attuazione delle politiche rilevanti per sostenere un continuo ed armonico sviluppo economico e sociale di tutti gli stati membri. Per l’UE accettare eccezioni a questi principi equivale a piantare i semi di una futura disgregazione dell’Unione stessa, in quanto consentirebbe ad altri membri di abbandonare la costruzione europea e di chiedere lo stesso trattamento accordato al RU. In termini più concreti, significherebbe permettere al paese che non intende più contribuire alla costruzione europea di poter continuare a beneficiare della partecipazione al mercato unico senza condividerne le stesse regole e gli stessi vincoli. Una condizione chiaramente inaccettabile sia per i restanti membri, sia per il futuro dell’integrazione. Tanto più inaccettabile allorquando i governanti britannici dichiarano di voler usare la riconquistata autonomia per offrire agli investitori e alle imprese condizioni più vantaggiose di quanto possibile nell’UE; quest’ultima, di conseguenza, si troverebbe esposta a una forte concorrenza di sistema dall’esterno.

Tra gli operatori economici la Brexit è, invece, valutata prevalentemente nei suoi effetti sull’andamento della crescita, degli scambi commerciali, dei servizi finanziari e di grandezze macroeconomiche, quali gli investimenti. l’occupazione e l’inflazione. Le simulazioni econometriche finora effettuate concordano nello stimare che l’impatto di medio periodo sulla dinamica dell’economia europea sarà negativo ma di portata modesta e probabilmente molto inferiore a quanto si verificherebbe nel RU. In particolare, considerando un ventaglio di scenari che vanno dal no deal a una sorta di “soft Brexit” che contempli la permanenza nel mercato unico, si stima per i britannici una perdita di reddito nel corso degli anni che varia tra il 9,5% e il 6,3%. Nulla di sorprendente, dato che il mercato dell’Unione conta attualmente per circa il 45% degli scambi del RU e che la “distruzione di commerci” conseguente alla perdita dei benefici traibili da quel mercato non sarebbe immediatamente compensabile con una diversione degli scambi verso altre aree geografiche più lontane. L’esito finale dipenderà, tuttavia, dalla risposta di politica economica del governo britannico allo shock della Brexit, a cui va a sommarsi quello della crisi sanitaria.

Un no deal non avrebbe un impatto altrettanto drammatico sull’economia italiana, benché il mercato d’oltremanica costituisca per importanza il quinto sbocco per i nostri prodotti e nonostante le molte lamentele e richieste sollevate dalle categorie più colpite. Ben difficilmente nel prossimo biennio l’interscambio commerciale bilaterale potrà continuare a crescere ai ritmi dello scorso decennio (+4,5% in media dal 2012), superando il livello di oltre 35 miliardi di euro raggiunto nel 2019 con un eccedenza delle nostre esportazioni (25 mld) sulle importazioni (10,7mld). Diversi ostacoli vi si frappongono, a parte lo shock della Brexit, tra cui gli effetti sulla domanda del RU del rallentamento del commercio mondiale in atto da qualche anno, della lunga crisi sanitaria, che ha depresso i redditi e rafforzato le pressioni protezionistiche, e di un ulteriore cedimento della sterlina dopo quelli avvenuti fin dal referendum di uscita dall’Unione. La SACE stima che il no deal determinerebbe una contrazione dell’export italiano (rispetto allo scenario ritenuto probabile senza no deal) del 12,1% nel 2021 dopo il meno 14,8% del 2020, con un forte rimbalzo nel 2023 (+7,7%) che porterebbe gli scambi al di sopra dell’andamento assunto come probabile. Ma questo scenario si basa su ipotesi sulle nuove barriere tariffarie nell’interscambio tutte da verificare, e non è nemmeno chiaro quanto il calo degli scambi sia dovuto a fattori indipendenti dalla Brexit. Si consideri anche che il no deal non preclude che in seguito si possano raggiungere limitati accordi col RU su qualche comparto sulla base di vantaggi specifici attentamente bilanciati.

Complessivamente, sembra che gli effetti negativi siano da mettere in conto, ma siano sostenibili. Le analisi dell’OCSE e di altre istituzioni, per esempio, stimano che tra le grandi economie dell’UE quella italiana risulterebbe tra le meno colpite. Molto dipenderà da quanto efficace sarà la reazione del governo italiano nell’innescare una robusta ripresa economica mettendo a frutto le ingenti risorse fornite da Bruxelles. In ogni caso, l’interesse preminente dell’Italia travalica le mere considerazioni commerciali e riguarda il futuro dell’Unione con il corollario della necessità di proseguire nello sforzo comune di costruire una Casa Europea in cui tutti i membri traggano stimolo e sostegno nel perseguire il loro progresso sociale, culturale ed economico. Quindi, anche per il nostro paese il no deal sarebbe meglio di un bad deal.

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