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Più costi che benefici. Perché la Cina non spinge più sulle Vie della Seta

Il Financial Times fotografa investimenti della Bri in calo: perché? “Nel momento in cui i costi dell’espressione ‘nuove vie della seta’ superano i benefici, quell’espressione perde di significato”, spiega Alessandro Aresu

Nel 2016 la Banca di sviluppo cinese insieme alla Banca import-export della Cina finanziava all’estero 75 miliardi di dollari di prestiti: nel 2019 il valore è sceso a soli 4 miliardi. Il dato, riportato dal Financial Times, è una fotografia su come la forza con cui Pechino spinge la Belt & Road Initiative sia rallentata, perché quei due istituti erogano e hanno erogato molti dei prestiti che la Cina ha inviato in Paesi partner sulla Via della Seta – in particolare, ricorda FT, sono quelli che hanno stanziato i fondi per la costruzione delle infrastrutture, la componente fisica del progetto geopolitico con cui il Partito/Stato intende collegarsi verso occidente.

Il fatto che il dato arrivi già dal 2018 e 2019 è molto indicativo perché, al di là della narrazione che Pechino potrà spingere, quel calo non è legato agli effetti collaterali della pandemia. Uno dei problemi principali è invece l’insostenibilità dei prestiti: al di là dei commi negli accordi e del tasso, la ragione per cui è calata la fiducia nel ricevere fondi dalla Cina è connessa a quella che viene definita “trappola del debito”; ossia il sistema con cui il governo cinese, davanti ai partner che non hanno avuto possibilità di ripagare il prestito, ha chiesto di avere in cambio il controllo per diversi anni di quelle infrastrutture (strategiche) che aveva finanziato.

L’esempio più citato riguarda il porto cingolese di Hambatntota, ma altri Paesi del Sud-est Asiatico, i primi a entrare nella Bri dopo il lancio del 2013, si trovano in situazioni analoghe – molti in realtà, analogamente allo Sri Lanka, hanno una situazione pregressa di crisi del debito e una economica più profonda che va anche al di là dei rapporti con Pechino. Ma dietro al calo dei prestiti ci sono anche altre due ragioni. La prima riguarda l’azione aggressiva statunitense: la guerra economica di matrice trumpiana non dovrebbe subire modifiche profonde, se non un maquillage d’etichetta, sotto il nuovo presidente Joe Biden, e questo non è un buon segnale per Pechino. La seconda è una faccenda interna: il Partito ha avuto pressioni per veicolare all’interno quei fondi destinati all’estero, e questo mood – messo insieme al nuovo piano quinquennale che punta (allargandosi al 2035) a modificare i consumi interni sull’export – potrebbe continuare post-Covid.

Finora la Cina aveva trovato forza di penetrazione in molti Paesi anche perché con l’elargizione generosa dei prestiti corteggiava governi e leadership; chiaramente di quella generosità faceva parte un atteggiamento non certo severo nei confronti di quei governi e delle élite collegate anche nei casi in cui presentassero problemi nella gestione dei diritti umani e nel sopraffarsi del resto della popolazione con atteggiamenti molto diversi dall’essere democratici. Ora quello che fotografa il Financial Times dà una dimensione ben diversa. La Cina deve controllare i propri investimenti, la Bri ha una dimensione che Pechino fatica a controllare, il Partito/Stato ha necessità di pensare ai suoi cittadini e a certi malcontenti prima che all’ambizione imperiale. E, dunque, la Bri e le sue nuove vie della seta hanno perso di consistenza?

“Sì, credo che l’attenzione legata alle cosiddette nuove vie della seta abbia portato spesso a dimenticare che le priorità cinesi riguardano l’ambito interno  le contraddizioni economiche, Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, il rapporto tra il Partito e i giganti tecnologici”, risponde Alessandro Aresu, direttore di Scuola di Politiche, autore del saggio di successo “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina“.

“Continuare a spendere per controllare i maggiori porti del mondo è sicuramente meno importante di tutto ciò – continua Aresu – anche perché i maggiori porti del mondo sono già in Cina. Davanti ad altre priorità, è possibile che la Bri entri nel dimenticatoio della politica internazionale, come ha detto due mesi fa Franco Bernabè, oppure che si mantenga un maquillage per cui si parla di ‘via della seta sanitaria’ o di ‘via della seta digitale’, come ha fatto Xi Jinping (il segretario del Partito comunista cinese, ndr) anche al recente China-Asean Expo. Il Partito comunista cinese ha una forte capacità di adattamento, e nel momento in cui i costi dell’espressione ‘nuove vie della seta’ superano i benefici, quell’espressione perde di significato”.

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