Il clima di ottimismo suscitato nella scorsa estate dalla forte ripresa della domanda nelle sue componenti di consumi interni (9,2%), investimenti (31,3%) ed esportazioni (30,7%) è stato presto dissipato dalla nuova caduta degli acquisti, con l’indice Pmi sceso ai livelli di maggio scorso, e dalle fosche previsioni dell’Istat sulla crescita complessiva nell’anno. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista dell’Ocse
Gli ultimi dati sulla congiuntura economica mostrano un rimbalzo della crescita nel terzo trimestre, quando sono state allentate le restrizioni alle attività, e un nuovo arretramento nell’ultimo trimestre dell’anno con il ripristino selettivo delle restrizioni. Il clima di ottimismo suscitato nella scorsa estate dalla forte ripresa della domanda nelle sue componenti di consumi interni (9,2%), investimenti (31,3%) ed esportazioni (30,7%) è stato presto dissipato dalla nuova caduta degli acquisti, con l’indice Pmi sceso ai livelli di maggio scorso, e dalle fosche previsioni dell’Istat sulla crescita complessiva nell’anno.
Il consuntivo per l’anno vedrebbe in specie una regressione del Pil di quasi il 9% per il crollo della spesa delle famiglie e degli investimenti (10%) e una contrazione più profonda delle esportazioni (16%) e del clima di fiducia di famiglie ed imprese. Uniche note appena positive il soccorso offerto da una spesa pubblica in espansione (2%) ma certamente insufficiente a trainare l’economia, e l’irrobustirsi dell’interesse a investire in beni immateriali, come R&S, proprietà intellettuale e software, che peraltro hanno un’incidenza quantitativa minima sul totale della spesa.
Fermarsi su questi dati e sulla revisione verso il basso delle previsioni di ripresa nel 2021 è in ogni caso molto miope perché bisogna allungare la vista sull’orizzonte di medio periodo ovvero i prossimi 3-5 anni, che ci diranno se il Paese continuerà nella direzione del sottosviluppo o riuscirà a marciare a ritmi nettamente superiori a quelli visti negli ultimi venti anni. Molto dipenderà dalla qualità della strategia economica che sarà messa in campo ed attuata più che dalla quantità di aiuti finanziari e i prestiti che si potrà ottenere, contando su Bce, Bruxelles e i mercati finanziari internazionali. Infatti, l’esperienza del passato ventennio evidenzia che grandi masse di risorse sono state ottenute e profuse in mille rivoli senza produrre durature accelerazioni nell’espansione del reddito nazionale.
Un primo disegno di strategia l’ha presentato a ottobre il ministro Patuanelli, quando ha indicato come pilastri della politica industriale attuale digitalizzazione, innovazione, green economy, competitività di filiera, startup e formazione. In questo approccio si segue sostanzialmente gli orientamenti della Commissione Europea e si traccia il solco per la definizione dei progetti da portare al finanziamento del Recovery Fund. Ma non tutti gli assi di una strategia all’altezza della sfida di innescare una crescita sostenuta sono compresi in questo quadro, perché pochi sono i riferimenti alle riforme di struttura e di sistema necessarie per fare il miglior impiego delle risorse ottenute.
Qualche cenno a questa componente mancante si ritrova in due dichiarazioni di politica industriale apparse ultimamente: l’una nella relazione annuale del presidente della Confindustria e l’altra nel Rapporto della Commissione Industria, Ricerca ed Energia al Parlamento Europeo per una nuova strategia a lungo termine per il futuro industriale dell’Europa. Nella prima Relazione si invoca una visione alta e lungimirante per un nuovo grande Patto per l’Italia, che porti a considerare in un contesto unico le politiche per innovazione, formazione, ricerca, efficienza dei mercati, infrastrutture abilitanti, sia fisiche che istituzionali come la Pubblica Amministrazione, e gli interventi per la coesione sociale.
Stranamente questa visione non si rivede nell’ultimo rapporto della Confindustria sulla politica industriale in cui si guarda soltanto al massiccio programma di investimenti del Piano Next Generation EU come il fulcro per ridare competitività e sostenibilità nel tempo al sistema produttivo italiano. E si spinge a sostenere l’opportunità di puntare su “pochi, grandi progetti di filiera, integrati su snodi strategici per lo sviluppo del Paese”.
Il Rapporto adottato dal Parlamento Europeo disegna una strategia di politica industriale articolata in due fasi: prima rilancio del sistema produttivo e poi ricostruzione e trasformazione nella prospettiva della transizione verde e della digitalizzazione. Tra i cenni di riforma la esenzione dalle regole del Patto di Stabilità per gli investimenti in questi campi, l’introduzione di una carbon tax alle frontiere, una difesa più stretta del mercato interno dalla concorrenza dei produttori extracomunitari che non rispettano le stesse regole e sostegni per la ricapitalizzazione delle imprese troppo indebitate.
Si tratta di cenni, mentre le raccomandazioni della Commissione Europea prima della pandemia chiedevano esplicitamente riforme più ampie, che includevano la giustizia e la pubblica amministrazione. L’atteggiamento prevalente nel dibattito pubblico è, tuttavia, che massici investimenti pubblici e privati bastino da soli a rilanciare il potenziale di crescita nel lungo termine e che in un periodo così difficile per la società non si possano introdurre riforme in cui inevitabilmente ci saranno vincenti e perdenti. Di contro, vi sono analisi che dimostrano l’importanza delle riforme di struttura per elevare durevolmente la capacità di sviluppo economico negli anni, anche se gli effetti non si colgono immediatamente.
In tal senso, un recente studio della Banca d’Italia aggiunge nuove prove a quanto era già emerso in precedenti indagini. Alcuni economisti della Banca (Ciapanna et alios) hanno stimato l’impatto di tre riforme, ovvero la limitata liberalizzazione nel settore dei servizi, gli incentivi all’innovazione e il modesto efficientamento della giustizia civile. Sono riforme iniziate in parte dal governo Monti in piena crisi economica nel 2011-2012 e per altra parte dal governo Renzi fino al 2017.
La stima è stata condotta in due fasi: prima sulla base dei dati di bilancio di un campione di imprese e dell’indagine Invid si valuta l’effetto sulla produttività e sulle maggiorazioni dei prezzi sui costi (markup), e successivamente si calcola l’impatto di questi effetti sulla dinamica del Pil e sull’occupazione mediante un modello di equilibrio generale. Si può discutere sul metodo di stima e sui margini di incertezza nella quantificazione degli effetti, ma i risultati appaiono importanti in quanto sono in linea con altre stime che si derivano applicando metodi diversi.
Le riforme avrebbero prodotto un incremento del Pil tra 3% e 6% dopo un lasso di alcuni anni ed estenderebbero la loro influenza nel lungo periodo portando l’effetto complessivo a 4-8%. I riflessi sull’occupazione sarebbero minori (circa 0,4%) in quanto permangono molte rigidità nel mercato del lavoro. Pertanto, le riforme di anni passati hanno contribuito all’espansione economica osservata dal 2015 al 2019 e continueranno a farlo nei prossimi anni. Se le riforme strutturali si dimostrano in grado di potenziare la crescita di medio-lungo periodo, farne a meno implica rendere modesti i risultati dei grandi investimenti programmati nel quadro del Recovery Fund.
Ma oggi come nel passato la leadership politica nutre gran timore a metter mano a riforme, perché gli italiani sono già messi a dura prova dalla crisi sanitaria. Tuttavia, se l’esperienza ci ha indicato che nei periodi difficili non si è voluto farle e nella congiuntura buona non si è pressati a farle, quando il Paese sarà pronto a farle per porre le basi di una crescita duratura? Oggi, invece, è il momento opportuno per programmarle attentamente nella portata e nei tempi di attuazione e per annunciare che entreranno in vigore appena usciti dalla crisi, probabilmente tra un anno. Ne deriverebbe chiarezza nell’indirizzo di politica economica e si stabilizzerebbero le aspettative degli italiani e delle imprese.
Quali riforme potrebbero potenziare i benefici degli investimenti finanziati dall’Unione? In primo luogo, le procedure di autorizzazione dei progetti privati e delle opere pubbliche andrebbero snellite sottraendole ai tanti permessi a livello sia centrale, sia periferico, che ne ritardano tanto l’avvio che il completamento. La semplificazione andrebbe seguita anche per riformare la giustizia, a cui vanno aggiunti meccanismi per responsabilizzare veramente i giudici per il loro operato.
Altro capitolo importante riguarda la concorrenza di mercato, la cui carenza costituisce una barriera all’innovazione, all’aumento della produttività e alla diffusione dell’imprenditorialità. Quest’ultima va stimolata abbassando le barriere che la ostacolano specialmente nei campi della formazione degli imprenditori e del management, dell’accesso ai finanziamenti, delle infrastrutture, particolarmente quelle digitali, e delle procedure amministrative.
Un nodo da sciogliere riguarda il rinnovamento dei programmi d’istruzione a livello secondario e terziario perché ancora ancorati a modelli superati che rendono difficile l’occupabilità dei giovani. Non da ultimo va promossa la mobilità del lavoro verso le competenze richieste dalla nuova economia e verso le aree in cui è maggiormente sentita la carenza di forze di lavoro qualificate. Non si tratta di una sfida impossibile per un Paese che da anni attraversa dure prove.