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Scontro Cina-Australia, lo sfondo dietro le navi italiane bloccate

Cina e Australia sono praticamente in guerra. Lo scontro economico e commerciale è durissimo, Pechino ha dimostrato la grande aggressività della wolf warrior diplomacy, mentre Canberra s’è dimostrata pronta a scegliere la strategia sull’economia. Le navi italiane bloccate a Huanghua sono finite in mezzo, innocenti, a questo scontro duro

La vicenda delle imbarcazioni italiane “Mba Giovanni” e “Antonella Lembo”, ferme davanti al porto cinese di Huanghua, col personale bloccato da mesi e mesi ufficialmente per le regole Covid, si inserisce all’interno di una partita geopolitica aggressiva tra Canberra e Pechino. Le due bulk carrier napoletane contengono a bordo carbone caricato in Australia e diretto in Cina; è questo l’elemento cruciale della vicenda. E mentre tutto resta fermo per gli equipaggi italiani, val la pena fotografare lo scontro all’interno del quale le imbarcazioni italiane sono finite in mezzo. Per farlo, basta andare indietro di un mese e costruire il quadro.

Il 18 novembre l’ambasciata cinese a Canberra ha fatto arrivare un documento dai toni minacciosi alla stampa australiana – il Partito/Stato da diverso tempo ha iniziato a usare le ambasciate in giro per il mondo per spingere toni severi e affrontare dossier spinosi (si ricorderà di quando, agosto 2019, l’ambasciatore dall’Italia lanciò la campagna per accusare gli Stati Uniti di destabilizzare Hong Kong). “La Cina è arrabbiata. Se fate della Cina un nemico, la Cina sarà il vostro nemico”, dice la feluca in Australia lamentandosi di una lunga serie di cose che non vanno nelle relazioni tra i due Paesi. Quel documento è stato di straordinaria importanza però non tanto per il contenuto, ma perché nei toni e nella forma rappresentava una dichiarazione di inizio delle ostilità.

Pechino sa che Canberra non tornerà indietro – anzi seguirà a modo suo l’implementazione dell’asse Indo-Pacifico Made in Usa – e per questo è passato alle maniere forti. Vediamo il contesto delle evoluzioni nel giro di un’annata: l’Australia è stato il primo Paese al mondo a mettere al bando Huawei, accusato di essere un asset dell’intelligence del Partito/Stato; ha invocato un’inchiesta sulle origini di SarsCov-2; ha preso le difese di Taiwan e Hong Kong e accusato la Cina per le repressioni nello Xinjiang; ha mosso le sue navi insieme a quelle americane nel Mar Cinese; ha stretto le maglie normative sull’interferenza straniera; ha cancellato visti ad accademici e imposto misure di controllo a giornalisti cinesi; ha accusato la Cina di attacchi cyber contro le proprie infrastrutture; ha bloccato investimenti cinesi nel paese. È un quadro pesante, che ha spostato – pare definitivamente – l’indecisione di Canberra tra business e strategia verso la seconda, portandola a scegliere l’asse statunitense a discapito del commercio con la Cina.

La Cina aveva già iniziato a rispondere ferocemente a tutto questo prima del documento. A inizio novembre ha avviato una guerra completa contro il commercio con gli Aussie. Inizialmente sono state fermate tutte le importazioni di legname, orzo e aragoste, tutte accusate di portarsi dietro vari tipi di contaminazioni – vietando i primi due e bloccando i crostacei negli scali di arrivo. Poi ha alzato un ban simile riguardo a zucchero, vino rosso e carbone (ed è in arrivo quello sul grano). Lo scontro è diventato durissimo, le cancellerie hanno quasi interrotto le relazioni (“quasi” perché l’azione cinese è subdola). A fine ottobre il Guardian ha pubblicato i risultati di un’analisi in cui si sostiene che per l’Australia il costo di questi blocchi non sarà meno di 19 miliardi all’anno. L’obiettivo cinese è punire Canberra per essersi esposta all’allineamento americana e nel farlo cerca la leva economica attraverso cui scatenare le opposizioni a Morrison. È una tattica nell’ombra per produrre un cambio di amministrazione e magari sponsorizzare all’elezioni qualcuno di meno spinto sul lato Usa del dualismo.

Lo scontro è continuato per immagini. Il 30 novembre, il portavoce del ministro degli Esteri cinese (noto per la retorica aggressive) ha pubblicato su Twitter un’illustrazione dell’artista nazionalista Wuheqilin in cui un soldato australiano tiene un coltello alla gola di un bambino quasi soffocato dalla Australian National Flag, che a sua volta copre un puzzle che disegna la bandiera afghana. Si riferiva alle violenze commesse dall’esercito australiano in Afghanistan, che sono state rese pubbliche per opera di una commissione d’inchiesta delle stesse Forze armate di Canberra. Morrison è andato su tutte le furie e ha pubblicato un video sul social network cinese WeChat in cui ha definito quell’illustrazione una “false image” mostrando un evidente nervosismo – poi WeChat lo ha censurato e Morrison ha trovato spazio per recuperare su libertà e diritti. È la “wolf warrior diplomacy“, o in cinese “zhànláng wàijiāoricorda la Bloomberg, la linea iper-aggressiva dei diplomatici cinesi, e Twitter ne è diventato campo di battaglia tra Cina e Australia spiega in un’analisi sul Guardian Jing Zeng dell’Università di Zurigo.

Il 2 dicembre il ministero degli Esteri di Taiwan ha pubblicato sull’account Twitter ufficiale le immagini di due bottiglie, un sirah e uno chardonnay (tra l’altro un “Family Reserve” della De Bortoli, azienda storica costruita in Australia dagli italiani Vittorio e Giuseppina De Bortoli nel 1928), sostenendo di servire quei vini durante una cena diplomatica in segno di solidarietà con l’Australia. Pechino è andata su di giri per la provocazione (la provincia ribelle che chiama il vino australiano “Freedom Wine” spingendo una campagna di solidarietà internazionale e molto anti-Cina) e ha infestato i social di troll. Il 6 dicembre il Global Times – un media a cui il Partito/Stato affida il compito di rendere potabile la propaganda – ha pubblicato un’inchiesta secondo cui il coronavirus è arrivato a Wuhan per colpa della carne importata. Il maggior esportatore di carne in Cina è l’Australia. Attaccare le bistecche australiane era la risposta all’idea – di aprile – del premier Scott Morrison di lanciare un’investigazione globale per scoprire le responsabilità cinesi sulla pandemia. Le barche italiane sono in mezzo a questo tipo di diatriba.

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