Conte e la delega, l’istituto cyber del Dis, le nomine. È normale che l’intelligence italiana finisca vittima della crisi di governo? No, risponde Rosa Calipari, già deputata del Pd e componente del Copasir, vedova dell’agente del Sismi Nicola Calipari. Dall’autorità delegata alla cybersecurity, ecco come ricucire un (grave) strappo istituzionale
“L’integrità del nostro sistema di intelligence si regge su un fragile equilibrio istituzionale. Basta un altro strappo e l’equilibrio salta”. Parola di chi l’intelligence l’ha conosciuta da vicino, tanto nella vita privata quanto in quella professionale. Rosa Maria Villeco Calipari chiama in causa entrambe quando le chiediamo di commentare il tiro alla fune delle forze politiche sulla sicurezza nazionale. Deputata del Pd per tre legislature, già componente del Copasir, vedova dell’agente del Sismi Nicola Calipari, osserva costernata l’intelligence entrare nella crisi di governo, dalla fondazione cyber del Dis alle nomine fino alla delega che, dice, il premier Giuseppe Conte “dovrebbe cedere”.
Le nomine, l’autorità delegata, la cybersecurity. L’intelligence è finita nel ciclone della crisi di governo. Tutto normale?
No, affatto. La legge 124 del 2007, cui io stessa ho lavorato in sede parlamentare, nacque dall’esigenza di ricostruire un equilibrio interno ai poteri, di inaugurare un’intelligence più moderna e capace di dialogare con la società democratica. Fu una svolta significativa, cui contribuirono in parte anche le vicende legate alla morte di mio marito.
Quell’equilibrio oggi è a rischio?
Qualunque sia la maggioranza al governo, non bisogna mai romperlo. È un equilibrio delicato, fatto di pesi e contrappesi, di responsabilità politica e controllo del Parlamento, il comparto si trova al centro. Uno strappo e il filo si rompe. E allora a correre un rischio non è questa o quella forza politica, ma il Paese. Prima della legge 124 si faceva un uso politico del comparto intelligence, strattonato da un partito all’altro. Per questo il nuovo assetto affidava la responsabilità al presidente del Consiglio.
Appunto. Cosa non torna?
Non è una responsabilità assoluta. Il presidente coordina un governo, e in questa fase delicata ha tanti impegni sensibili all’interno e all’estero, penso al caso dei pescatori sequestrati in Libia. A prescindere dal giusto rapporto fiduciario con i vertici dei Servizi, deve avere un intermediario. È un settore che va seguito in maniera costante.
Altrimenti?
Inaugurare una prassi è sempre rischioso. Rifiutarsi di cedere la delega, in fondo, è già uno strappo istituzionale. Perché costituisce un precedente cui un successivo presidente del Consiglio può fare riferimento.
Anche Paolo Gentiloni ha tenuto la delega.
Sì, ma sapeva che dopo un anno ci sarebbero state le elezioni. Senza contare che c’era un comitato di controllo che lavorava con grande unità, salvo qualche fisiologica discussione interna. Che ha superato fasi politicamente difficili. Abbiamo trattato il caso Consip quando Renzi era a Palazzo Chigi, per dire. E mai una volta, anche nei quattro anni in cui c’era Marco Minniti come autorità delegata, un premier si è negato al confronto.
Veniamo all’Istituto italiano di cybersicurezza (Iic), inserito nella bozza di bilancio, poi stracciato, ora sospeso.
Inizio da una questione di metodo. Quando c’è in ballo la sicurezza nazionale, la forma è sostanza. Il Copasir è un comitato bipartisan, dove siede anche l’opposizione. Merita rispetto, e deve essere informato per tempo di decisioni sensibili. Nel caso della fondazione cyber come nella polemica scoppiata quest’estate, l’obiettivo del governo, la proroga tecnica del direttore di un’agenzia o la creazione dell’istituto, può essere condivisibile. Ma in una Repubblica democratica non si può bypassare un comitato parlamentare inserendo un emendamento in un decreto che parla di tutt’altro.
Sulla fondazione nutre dei dubbi?
Questa fondazione non è una novità, ricordo che ne parlavamo già nel 2015, quando al governo c’era Renzi. L’esigenza di investire nella cybersecurity era e resta sacrosanta, gli attacchi subiti dalle agenzie del governo americano ne sono la prova. Noi stessi al Copasir, durante un’indagine conoscitiva sulla cybersecurity, rilevammo la necessità di convogliare le forze del mondo imprenditoriale e di riattrezzare il comparto.
Allora?
Allora abbiamo avviato un percorso condiviso fra Copasir e governo che ha portato, ad esempio, all’istituzione di un vicedirettore del Dis con delega al cyber, ribattezzato “cyber-zar” dalla stampa. Poi, sul finire della legislatura, è riaffiorata l’idea di una vera e propria fondazione.
Quando ai vertici del Dis c’era Alessandro Pansa. Perché non è andata in porto?
Ci fu una lunga discussione. Eravamo vicini alle elezioni, non sapevamo quale sarebbe stata la prossima maggioranza. Ritenemmo che non fosse il caso di prendere una decisione così rilevante a fine legislatura.
Il governo e il comparto sottolineano l’esigenza di un centro per la sicurezza cibernetica da agganciare alla rete dell’European Cybersecurity Competence Centre e dei fondi della ripresa.
So che questa esigenza è molto sentita dal comparto e ne comprendo le ragioni. Il problema, ripeto, è evitare strappi istituzionali. Non si può inserire all’ultimo nella legge di bilancio un istituto del genere, e tantomeno nel maxiemendamento.
Qual è il rischio?
Far passare un messaggio negativo. Ovvero che la politica vuole gestire in maniera di parte, non importa quale parte, la sicurezza nazionale. Serve invece un lavoro di concerto, un impegno istituzionale, un rapporto costante con il Parlamento. Se il presidente non è in grado, oberato da altre emergenze, c’è sempre la delega.
Nel merito, cosa non la convince dell’istituto?
C’è un dubbio da chiarire. Chi controlla la fondazione? Se la struttura è privata, bisogna spiegare chi è il controllore. Un istituto così rilevante non può sfuggire al controllo, che, a mio parere, dovrebbe rimanere in capo al Copasir.
Come se ne esce? Una riforma della 124?
Può essere una strada. Ma la 124 va modificata, come avvenne con D’Alema al Copasir nel 2012, in Parlamento. Di certo non è il governo a doverlo fare.
Da mesi sono in sospeso alcune importanti nomine del comparto intelligence. Quanto ancora si possono rimandare?
Anche qui una premessa. Quando si parla di nomine, è normale che si sommino le ambizioni di tanti, con curricula più o meno degni. Il problema vero sorge se la politica invia un messaggio sbagliato: c’è chi può perché è più forte degli altri, e chi no. Così nascono le guerre intestine, gli scontri ai massimi livelli. Sono episodi che abbiamo già visto, e faremmo bene ad archiviare una volta per tutte.