Conversazione sull’Intelligenza artificiale (Ia) con Andrea Gilli, senior researcher in Affari Militari presso il Nato Defense College, a margine del convegno della Nato defence college foundation “Game Changers 2020”. Dai combattimenti all’intelligence, così Nato, Ue e Usa possono allearsi sull’Ia. La Cina? Non è (ancora) in testa
I numeri non mentono. Secondo la Commissione Ue, l’Intelligenza artificiale attrarrà entro il 2030 20 miliardi di euro di investimenti, ogni anno. Più ancora del 5G, è una tecnologia che promette di cambiare il volto dell’economia mondiale, dalle piccole e medie imprese alle grandi catene di fornitura. Ma è anche un segnalibro che divide un prima e un dopo nel mondo militare. Cina e Stati Uniti sono avanti nella corsa all’Ia. L’Europa e la Nato a che punto stanno? E come possono colmare il gap? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Gilli, senior researcher in Affari Militari presso il Nato Defense College, a margine del convegno “Game Changers 2020” organizzato dalla Nato defence college foundation.
Gilli, tutti ne parlano, ma in pochi la conoscono. Che cos’è l’Intelligenza artificiale?
È una triade e una trinità al tempo stesso. La triade è composta da processori, algoritmi, dati. Per far funzionare questi tre input, c’è bisogno di una trinità di network. Il capitale umano: puoi costruire il caccia perfetto, ma senza un pilota non puoi farlo volare. Lo stesso vale per l’Ia Poi la data pipeline, che permette di raccogliere e processare i dati in maniera efficiente. Non basta avere i dati: se non vengono processati, fanno la fine dei libri di un archivio abbandonato. Infine le comunicazioni. Ovvero i sensori permettono di raccogliere i dati, ma è necessario trasferirli ad alta velocità attraverso una rete.
Chi sta vincendo la corsa all’Ia? È vero che la Cina è avanti?
Solo in parte. Kai-Fu lee, nel suo “AI superpowers”, ha scritto che la Cina vincerà la competizione mondiale perché ha un miliardo e mezzo di persone con smartphone o connesse digitalmente. Non sono d’accordo. Perché, di nuovo, non basta avere i dati, bisogna processarli, ovvero servono i microchip. E se la Cina è forse avanti nello sviluppo dei software, nel campo dei microchip è indietro. In più, in una competizione tecnologico-militare, conta avere i dati corretti. I dati che servono in una guerra fra Alibaba e Amazon non sono gli stessi di una guerra sottomarina.
Veniamo al personale. Si dice spesso che l’Ia sostituirà il fattore umano. È un cliché?
Sì, la realtà è più complessa. Più si usa la tecnologia, più il fattore umano diventa importante. Perché, come in ogni automazione, agli esseri umani rimangono le funzioni che le macchine non sono in grado di svolgere, come la creatività, o la concettualizzazione. Il machine learning non riesce a cogliere fino in fondo un concetto astratto come la democrazia.
Cosa fa la differenza?
Il sistema educativo e universitario, ovviamente. E qui cade un altro luogo comune sul “vantaggio cinese”. In Cina il sistema non premia la creatività, incentiva l’esatto opposto, come in ogni sistema autocratico.
Passiamo alle applicazioni pratiche. A cosa servirà l’Ia?
Sono di diversi tipi. Il primo è l’enterprise software, che cambierà la routine di qualsiasi organizzazione. L’ufficio degli anni ’70, senza pc intelligenti, resterà un ricordo. L’inventory management. Lo stoccaggio di qualsiasi bene, dalle penne alle ruote dei camion fino ai pezzi di ricambio dei mezzi, sarà automatico. Mission support, come la logistica, o la sorveglianza e l’intelligence, dai droni ai satelliti fino al monitoraggio del traffico internet.
E nel mondo militare?
Un esempio è l’operational support. L’Ia può essere utilizzata in campo di battaglia per un vantaggio tattico-operativo, per esempio ottimizzando il dispiegamento delle forze in campo, aumentando la velocità con cui vengono raccolti e processati i dati e supportati gli effettivi dispiegati.
Che interazioni ci saranno fra Ia e rete 5G?
Sono due gemelli siamesi. Si può dire in effetti che se il 5G è la benzina, l’Ia è il motore, hanno bisogno l’una dell’altro. Andrew Ng, co-fondatore di Google brain, diceva “Data is the new oil”. È così.
La Nato ha dedicato negli anni una crescente attenzione al tema dell’Ia Che uso può farne?
Sappiamo cosa ha già fatto. La Nato ha sempre cercato di anticipare il futuro lavorando su tecnologie avanzate. Il CRME (Centre for Maritime Research and Experimentation, ndr), ad esempio, lavora da anni su come sfruttare i dati per massimizzare le capacità di guerra sottomarina. Un lavoro non dissimile è stato portato avanti dal centro JALLC a Lisbona, coinvolto nella recente esercitazione Trident Juncture, studiando come i big data possono essere sfruttati sul campo di battaglia.
Chiudiamo con una suggestione. Si parla spesso di una possibile alleanza fra Europa e Stati Uniti sulle tecnologie emergenti per contrastare l’avanzata cinese. Sull’Ia è possibile costruire un ponte?
Ci sono sicuramente basi comuni su cui i Paesi Nato e in generale le democrazie possono mettersi d’accordo. Ad esempio, rifiutando di utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale per identificare oppositori politici o minoranze etnico-religiose. Ma c’è un altro aspetto.
Quale?
La filiera produttiva dell’Ia è già globalizzata. I processori sono disegnati negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Israele, ma le macchine che stampano i semiconduttori altrove, come in Olanda, i software in altre regioni del mondo. Con una supply chain di questi tipo la vulnerabilità è talmente alta che c’è un interesse comune a cooperare. L’Ia, infine, è una general-purpose technology, una tecnologia pervasiva, che finisce ovunque nella società. Come un secolo fa l’elettricità, queste tecnologie innescano rivoluzioni industriali, ma solo se ci sono investimenti paralleli. Come i cavi, all’epoca, o il 5G oggi. Per questo c’è un enorme spazio di cooperazione transatlantica.