C’è poco o nulla da difendere in questa finanziaria. Escludendo le coperture fantasiose il finanziamento in deficit raggiunge una percentuale pari all’86,6 per cento. Niente male in una fase in cui Mario Draghi, a nome del “gruppo dei 30” si sgola nel predicare prudenza, additando nel rischio di insolvenza il pericolo maggiore dei prossimi mesi
All’inizio Via XX Settembre aveva sperato di cavarsela con poco. L’articolo 209 della legge di bilancio 2021, nella sua stesura originaria, prima della discussione parlamentare, prevedeva un aumento del fondo relativo alle spese indifferibili di 800 milioni nel 2021 e 500 nei due esercizi successivi. Il fatto che queste spese dovessero incidere tanto sul saldo netto da finanziare che sul fabbisogno era indice della loro ineluttabilità. Non ci sarebbero stati eventuali risparmi, visto che quel tesoretto era sostanzialmente a disposizione dei parlamentari.
Una sorta di vol-au-vent, come si diceva in passato. Somme che Camera e Senato, nel corso della successiva discussione, avrebbero potuto spendere come meglio credevano. Senza superare, tuttavia, la soglia determinata in precedenza dagli occhiuti controllori della Ragioneria generale dello stato. Una nuova grande illusione, stando almeno a quanto si legge nei commenti che hanno accompagnato il varo del nuovo testo da parte della Commissione bilancio della Camera. Che ora approderà in Aula per essere approvata.
Quindi dopo una breve pausa per il santo Natale, la corsa in Senato, nella speranza che diventi legge, prima della fine dell’anno, al fine di evitare l’esercizio provvisorio. Dovrà essere un piccolo miracolo, visto che il Senato sarà stretto nella morsa del prendere o lasciare, con scarse possibilità di inserire ulteriori modifiche. Qualora si verificasse quest’eventualità, il provvedimento dovrebbe essere sottoposto ad una terza lettura. Difficile che si faccia in tempo.
Sono state queste le contraddizioni di una procedura partita con oltre un mese di ritardo rispetto alle scadenze canoniche, a causa dell’ingolfamento di Palazzo Chigi: alle prese con la decretazione d’urgenza – sia i decreti legge che i Dpcm – relativa al Covid. E con un telaio del provvedimento – oltre 210 articoli – che avrebbe richiesto un esame ben più disteso ed approfondito da parte del Parlamento. Che, nonostante tutto, resta – o almeno così dovrebbe essere – l’organo della sovranità popolare.
Prospettiva sempre più appannata: un po’ a causa della pandemia, che sposta verso il governo prerogative e poteri; un po’ per il killeraggio di chi ha cercato, in tutti questi mesi, si avvalorare la tesi che la democrazia parlamentare altro non era che un residuo del passato. Per dovere di cronaca si deve poi accennare ad un clima che non è certo dei più favorevoli. Le difficoltà della maggioranza ed in particolare di Giuseppe Conte sono sotto gli occhi di tutti. Con il trascorrere dei giorni, le speranze di una possibile ricomposizione si sono sempre più ridotte.
Nulla esclude, pertanto, che di fronte alle difficoltà oggettive, alle quali si è fatto cenno, non possa verificarsi qualche sgradevole novità. Un colpo di mano, un’improvvisa defezione, un incidente di percorso che tale non è stato e via dicendo. Gli annali del Parlamento italiano sono pieni di episodi, all’inizio difficilmente decifrabili, ma che nei giorni successivi appaiono essere logica conseguenza dello stato di tensione di una maggioranza, che non era più tale.
C’è del resto qualcosa da difendere in un provvedimento, arbitrariamente, definito come manovra “anti-Covid”? È sufficiente, in proposito, leggere quanto scrive il Fatto quotidiano, sempre più tra i responsabili del “fuoco amico”, che si indirizza verso il governo. “Manovra, pioggia di ‘mancette’ Mps, resta il regalo a Unicredit”. Difficile dargli torto. L’impegno finanziario, inizialmente previsto dal governo, era pari ad oltre 108 miliardi, nel triennio 2021/23, in termini di indebitamento. Per garantire un certo equilibrio, il Mef era stato costretto a ricorrere ad alcune coperture “creative”.
Nel grande capitolo “reperimento risorse” erano stata conteggiate le entrate derivanti da una maggiore crescita, negli anni 2022/23, per 33,4 miliardi ed i fondi della Next Generation Eu, per 27,153 miliardi. Senza questi due apporti – la prima in particolare estremamente aleatoria – le risorse reperite si sarebbero ridotte a 14,497 miliardi.
Ben più certe le spese: 47,416 miliardi quelle correnti; 31.849 quelle in conto capitale. Cui aggiungere 28,944 di minori entrate, derivanti da vari sgravi fiscali. Il deficit finale risultava pertanto pari a 33,159 miliardi.
Cifra in apparenza tranquillizzante: solo il 30,6 per cento degli impegni complessivi. Tuttavia, escludendo le coperture fantasiose di cui si diceva in precedenza, in effetti il finanziamento in deficit raggiunge una percentuale ben più alta. Pari all’86,6 per cento. Niente male in una fase in cui Mario Draghi, a nome del “gruppo dei 30” si sgola nel predicare prudenza, additando nel rischio di insolvenza il pericolo maggiore dei prossimi mesi.
Se n’è tenuto conto nella discussione parlamentare? Non sembrerebbe. Da questo momento, la cronaca. La riformulazione, dopo due giorni di discussione, ha portato ad un aumento degli impegni per 5 miliardi. Il grosso della spesa riservato agli autonomi, seguono incentivi auto, aiuti agli aeroporti, proroga del super bonus edilizio, tanto caro ai 5 stelle. Che tuttavia, in uno specifico ordine del giorno, vorrebbero prorogare ancora al 2023.
Poi il grande assalto alla diligenza: esenzione Imu per i pensionati che risiedono all’estero, 10 milioni alla metropolitana di Brescia, fondi per la cannabis terapeutica, 5 milioni ai comuni di frontiera, 3 per i corsi di jazz nei licei, 5 per i boschi urbani, 1 all’Ente nazionale sordi, 4 ai campionati di nuoto di Roma, 100 mila per un master di medicina termale, misure per la parità di genere, bonus per lavandini ecologici, macchinari per ristoranti, cellulari per i percettori di un basso reddito, sovvenzioni alle scuole paritarie. E via dicendo.
E mentre la nebbia saliva, lo scontro tra i 5 Stelle ed il Tesoro diventava cruento. Vittima sacrificale Mps, al quale il governo aveva garantito un aiutino di 3 miliardi, sotto forma di sgravi fiscale, per favorirne l’incorporazione in Unicredit, di cui Pier Carlo Padoan, com’è noto, era divenuto presidente. I congiurati di Montecitorio, tutti 5 Stelle doc, volevano sopprimerlo. Meglio una semplice riformulazione, come proposto dal Tesoro. Ipotesi che alla fine si è dimostrata vincente, nel Paese del Gattopardo: in cui per rimanere tutto com’è, è necessario che tutto cambi.