“I risultati di Moderna sono molto buoni. Non dimentichiamo che il margine di efficacia auspicato era del 50%”, ha commentato a Formiche.net il genetista Giuseppe Novelli. Che, invita, però, alla cautela: “Per tirare le somme attendiamo il responso delle agenzie regolatorie”. Ma si dice ottimista: “In questo momento ci sono 183 vaccini e 446 farmaci in fase di studio per il Covid, di cui la maggior parte già in fase clinica”
Sono più che incoraggianti i dati sul vaccino di Moderna. Secondo quanto dichiarato dall’azienda, infatti, l’efficacia contro il Covid si attesterebbe intorno al 94%, che raggiunge il 100% nei casi più gravi. Nella giornata di ieri, inoltre, la casa farmaceutica ha chiesto l’autorizzazione all’uso di emergenza sia alla Food and Drug Administration, agenzia regolatoria statunitense, che all’Ema, l’omologa europea. Ma che vuol dire 100% di efficacia? E quanto ci vuole per scoprire gli eventuali effetti collaterali di lungo periodo? E che si intende per “uso di emergenza”? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Novelli, genetista e professore di genetica medica presso l’Università Tor Vergata di Roma e l’Università del Nevada degli Stati Uniti.
Professore, sappiamo che il vaccino di Moderna usa una nuova tecnologia. Che cosa si intende?
Mentre i vaccini classici somministrano parti inattivate del virus, o virus diversi (ad esempio adenovirus) modificati geneticamente nel loro Dna, questo si basa sulla tecnologia a mRNA, che inietta direttamente nelle cellule un frammento informativo di Rna. Questo frammento contiene una piccola informazione utile a far costruire alle nostre cellule parti del virus. Il messaggio è una specie di Snapchat, si autodistrugge dopo averlo consegnato.
Quindi un procedimento abbastanza simile al vaccino tradizionale, nelle sue finalità?
Non proprio, perché questo frammento di mRNA virale fa scattare allarmi nel sistema immunitario e lo addestra a riconoscere e attaccare il vero virus se cerca di invaderlo. Ma soprattutto è una tecnologia flessibile e dinamica che può consentire, ad esempio, di costruire altri “snapchat” in poco tempo se il virus dovesse mutare.
I risultati sembrano molto promettenti, con un’efficacia del 94,1% e addirittura del 100% in casi severi…
È indubbio che i risultati siano molto buoni. Consideriamo, però, che le somme potranno essere tirate solo quando la fase 3 sarà definitivamente conclusa e quando le agenzie regolatorie, statunitense ed europea ma non solo, presso cui è stato presentato il vaccino, daranno il proprio feedback. Non dimentichiamo, però, che il margine auspicato di efficacia era del 50%, quindi dati del genere non possono che renderci ottimisti.
Non ci resta che aspettare, dunque?
Esatto, ma come già ci è stato dimostrato, i tempi saranno senz’altro brevi. Anche se, mi creda, i materiali dei dossier che vengono presentati alle agenzie sono così ampi e dettagliati da richiedere un’analisi minuziosa. In gergo, quando ero all’Ema, usavamo dire che ogni dossier era composto da sette piani di carta…
Torniamo ai risultati. Su 30mila persone solo 196 hanno contratto il Covid e di queste solo 11 avevano ricevuto il vaccino. Che vuol dire?
Come saprà nelle sperimentazioni la metà dei soggetti coinvolti riceve il vaccino e l’altra metà il placebo. Ecco, dei 196 positivi al Covid, a 185 era stato somministrato il placebo e solo a 11 il vaccino. Tra l’altro, di questi 11 tutti hanno contratto il Covid in forma lieve.
Quanti invece in forma grave?
Trenta, ma tutti appartenenti al gruppo del placebo.
A questo si fa riferimento con 100% di efficacia?
Sì, ma invito nuovamente alla prudenza. La fase 3 deve ancora concludersi e il campione adoperato, seppure di decina di migliaia persone, non è da considerarsi come un campione da laboratorio. In laboratorio sono controllati in tempo reale. Per la valutazione di vaccino, viene iniettato il virus direttamente nel soggetto dell’esperimento. È evidente che nell’uomo per ragioni etiche non si può fare e quindi dobbiamo fare studi epidemiologici accurati.
Quali sono, quindi, gli elementi per avere una maggiore certezza?
La fase 4, di cui nessuno parla. Dopo l’approvazione delle agenzie, c’è una fase di monitoraggio, cosiddetta di farmacovigilanza, in cui si monitora ogni soggetto che ha assunto il vaccino. Solo così, ampliando il campione potenzialmente all’intera popolazione, si avranno maggiori informazioni sull’efficacia.
E anche sulle eventuali conseguenze di lungo periodo?
Certo. Questi vaccini sono sperimentati da pochissimi mesi, è fisicamente impensabile pensare di poter avere i dati sul lungo termine. E si chiariranno anche altri dettagli tecnici sul vaccino stesso, come ad esempio se rende completamente immuni o se semplicemente diminuisce il rischio di contagio ma anche per quanto tempo mantiene l’efficacia o se agisce anche sulla trasmissibilità del virus. Tutti elementi fondamentali.
Come stiamo messi con la sperimentazione di altri vaccini e/o terapie?
Molto bene, direi. In questo momento ci sono 183 vaccini in studio, di cui 59 già testati in trial clinici umani. E sono ben 446 i farmaci in fase di studio, di cui la maggior parte, 359 per la precisione, già in fase di trial clinico. Magari la ricerca farmaceutica andasse sempre così veloce…
Moderna chiede il via libera per l’uso emergenziale. Che vuol dire?
È la nuova regolamentazione statunitense per accelerare le procedure durante il Covid. Un po’ come il cosiddetto uso compassionevole o la procedura rapida dell’Ema. La stessa, insomma, grazie alla quale negli Stati Uniti stanno utilizzando gli anticorpi monoclonali della Regeneron o di Eli Lilly, quelli somministrati a Donald Trump.
Parliamo di un virus che sta mutando e che potrebbe mutare. Come ci difendiamo?
In primis, la tecnologia utilizzata da Moderna, che è la stessa di Pfizer, consente per sua natura di elaborare un nuovo vaccino in tempi rapidi qualora il virus mutasse. Ma considerando, sempre, che seppure in minima parte il virus cambia continuamente. È che trattandosi di minimi cambiamenti, sul quadro clinico non ha alcuna conseguenza.
In che senso continuamente?
Basti pensare che il virus di Wuhan, che era il D614, durante il suo viaggio verso l’Europa e gli Usa, è emerso una variante chiamata 614G oggi predominante nel mondo. Un virus per sua natura si evolve e si adatta all’ambiente che lo ospita perché il suo obiettivo primario è replicarsi e diffondersi.
E il fatto che sia stato individuato in migliaia di visoni? È causa di un’altra mutazione?
No, quello è causa degli allevamenti intensivi. Ha presente gli assembramenti che sconsigliano e sconsigliamo vivamente all’uomo? Ecco, gli animali da allevamento vivono in stato di costante assembramento, il terreno più fertile per qualunque forma di virus. Lì si replica, muta, si moltiplica e reinfetta nuovamente. Il virus fa festa negli allevamenti intensivi. Non dimentichiamo che gran parte dei virus degli ultimi anni vengono dagli animali. L’aviaria dai polli, l’encefalopatia spongiforme bovina, la cosiddetta mucca pazza, dai bovini, la Sars da animali carnivori di piccola taglia. Ma anche l’Hiv, banalmente, arriva dagli scimpanzé.
Però loro non sono allevati…
No, qui rientriamo nelle ripercussioni della deforestazione, che impone – a noi e agli animali – un contatto che prima non avevamo. E, di conseguenza, un contatto con i patogeni di cui sono portatori e che, senza deforestazione, difficilmente avremmo potuto contratte.
Uno stretto legame, dunque, fra ambiente, animali e malattie.
Strettissimo. Non dimentichiamo che lo stesso Sars-Cov2 arriva dai wet market di Wuhan. Ogni ecosistema è strettamente connesso, e l’impatto di azioni e comportamenti umani sull’ambiente, come anche questa pandemia rivela, crea onde e ripercussioni inimmaginabili.