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Covid-19, l’incidente normale dell’economia globalizzata

Il Covid-19 può essere stato “l’incidente normale” del nostro sistema di economia globalizzata, dei suoi eccessi, della sua aggressività verso gli ecosistemi? Una risposta a questa e altre domande su ambiente e localizzazione versus globalizzazione cerca di darla il gesuita coreano Cho Hyun-Chul sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica, in un articolo letto in anteprima per Formiche.net da Riccardo Cristiano

Se si pensasse che la pandemia che stiamo vivendo sia soltanto una malattia infettiva virale si commetterebbe un grave errore. Lo afferma con inusuale chiarezza il gesuita coreano Cho Hyun-Chul sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica di imminente pubblicazione: “Il Covid-19 è, da un lato, un incidente sanitario e, dall’altro, un problema ambientale. Riguarda la questione umana dello sviluppo e dell’economia. Se ci si limita a considerarlo una malattia o una complicazione ambientale, si perde il punto essenziale e non si troveranno le vere soluzioni. Come ha detto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ , dobbiamo ricordare che non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”. La duplice crisi va dunque collegata all’economia e all’ideologia della crescita economica, perseguita in tutto il mondo secondo i parametri neoliberisti.

L’autore parte dalla constatazione che il contagio è divenuto pandemico per via dell’intensità dei collegamenti e degli spostamenti, che hanno consentito la diffusione rapidissima del contagio in tutto il mondo: “Inoltre, l’economia globalizzata ha abolito in tutto il mondo qualsiasi regolamentazione riguardo all’investimento di capitali. Imperversano insensate attività minerarie, la deforestazione e altre attività distruttive; è in corso una massiccia devastazione dell’ecosistema da parte dell’uomo, le cui conseguenze hanno condotto in vari modi alla diffusione del contagio. In termini generali, l’inquinamento ambientale favorisce la proliferazione dei virus”. Ma non c’è solo l’inquinamento: la perdita di habitat naturale per numerosi animali selvatici li ha costretti ad avvicinarsi ai centri abitati, il numero di essi affetti da malattie virali è aumentato di 2,5 volte nelle aree ambientalmente devastate, l’agricoltura intensiva è divenuta una via di contagio e le monoculture, il disboscamento e gli incendi hanno creato un ambiente “propizio” distruggendo foreste e biodiversità: guardando a domani lo stesso  scioglimento del permafrost, causato dal riscaldamento globale, potrà  liberare vari tipi di virus finora sepolti nel ghiaccio: “Insomma, siamo stati noi esseri umani a evocare i virus. Prima che fossero questi ad attaccare l’uomo, è stato l’uomo ad aggredire la natura. Dietro l’attuale situazione c’è quel sistema capitalistico globalizzato che mira solo alla massimizzazione dei profitti. Per combattere una pandemia come quella del Covid-19, dunque, non bastano le politiche sanitarie e le misure preventive finalizzate specificamente al contenimento del contagio: dobbiamo considerare ciò che si nasconde dietro la sua esplosione, assumendo uno sguardo critico più ampio, che comprenda l’economia globalizzata”.

In questo sistema eccessivo oggi per libero scambio si intende un sistema di commercio impazzito, nel quale ovunque si importa ciò che potrebbe essere prodotto sul posto: “Le aziende agricole industriali globali ne sono un tipico esempio. Sugli scaffali dei supermercati coreani si possono trovare molti prodotti agricoli a buon mercato, provenienti da altri Paesi. Ma perché tali prodotti avessero un prezzo competitivo rispetto ai prodotti nazionali è stato necessario impiegare manodopera a basso costo, sfruttare le risorse naturali, ottenere sussidi e favori governativi. Nel prezzo dei loro prodotti le aziende transnazionali non comprendono i costi dell’inquinamento ambientale e altre spese di cui sono responsabili, ma piuttosto scaricano i costi sulle regioni nelle quali è stata prodotta quella merce. Poiché la massimizzazione del profitto è l’unico interesse che le guida, esse cercano manodopera a basso costo e grandi vantaggi, ignorando i bisogni di quelle regioni. Ne consegue il degrado della manodopera locale e dell’ambiente”.

Tutto questo significa concentrazione che offre una esigua gamma di prodotti in base al vantaggio comparato, rendendo tutte le economie dipendenti: “A causa della globalizzazione, un esiguo numero di multinazionali del grano domina i mercati mondiali del frumento; di conseguenza, l’industria agricola tradizionale e i villaggi rurali stanno andando rapidamente incontro al collasso. Ad esempio, in Corea il livello di dipendenza dai prodotti alimentari stranieri è altissimo”. Eppure l’autosufficienza alimentare mondiale è superiore al 100% in media. Ma nel sistema attuale la distanza fisica tra luogo di produzione e luogo di consumo si è enorme te dilatata, e la distribuzione è divenuta la principale causa di emissioni di carbonio. Solo gli agricoli industriali globali, osserva lo studio, sono responsabili del 30% delle emissioni di gas serra. “Inoltre, il ‘neoliberismo’, fondamento ideologico dell’economia globalizzata, ha portato alla privatizzazione, alla deregolamentazione e a tagli della spesa pubblica, rivelandosi il più grande ostacolo all’intervento sull’ambiente che cerca di affrontare i cambiamenti climatici riducendo le emissioni di carbonio. È una cosa assurda: il mondo tentava di contrastare il cambiamento climatico mentre promuoveva quell’economia globalizzata che lo accelera”.

A questo punto, con un tocco di genialità, l’autore introduce il concetto di “incidente normale”. È un’espressione che indica quell’incidente ritenuto inevitabile per la complessità di un determinato sistema, come ad esempio le centrali nucleari. Allora il Covid-19 può essere stato “l’incidente normale” del nostro sistema di economia globalizzata, dei suoi eccessi, della sua aggressività verso gli ecosistemi? Qualcuno ritiene possibile inserire sistemi di sicurezza in questo sistema economico globale o non è necessario cambiare sistema? Ovviamente è questa la conclusione suggerita da padre Cho Hyun-Chul, per il quale è necessario passare da un sistema di economia globalizzata a un’economia localizzata. “Un’economia localizzata tende a un ragionevole livello di autosufficienza, ma non all’autarchia. Mira a produrre e a consumare localmente il più possibile, in base alle esigenze di un’area territoriale concreta. Secondo il buonsenso, il sistema economico più razionale è quello che utilizza le risorse di un luogo per produrre ciò di cui hanno bisogno i cittadini che vi risiedono”. Certo, la massimizzazione dei profitti a discapito dei lavoratori e dell’ambiente ne risentirebbe, e questa sembra la  scelta da compiere. I suoi principali vantaggi sono tre: “In primo luogo, riduce la probabilità di un normal accident su scala mondiale, perché antepone la dipendenza locale all’interdipendenza internazionale, e alle strette connessioni internazionali preferisce vincoli più allentati. Una pandemia virale mondiale è tra i normal accidents che possono essere prevenuti in questo modo.

In secondo luogo, un’economia localizzata riduce la distanza tra produzione e consumo, e con ciò riduce il commercio internazionale non necessario, e altrettanto fa con il consumo energetico riservato ai trasporti. In terzo luogo, nell’agricoltura i piccoli contadini locali subentrano agli agricoltori industriali globali e le colture biologiche prendono il posto di quelle chimiche. La gente può accedere più facilmente ai prodotti locali che alle merci provenienti dall’altro capo del mondo, di cui non conosce i produttori. Un’economia localizzata garantisce un approvvigionamento alimentare affidabile e a lungo termine”.



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