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7 dicembre 1970, quando Willy Brandt indicò la strada dell’Europa

Willy Brandt non viene usualmente citato tra i padri dell’Europa, ma è il padre del progetto europeo perché in quei giorni culminati nell’inginocchiarsi davanti al memoriale della Shoah a Varsavia cinquant’anni fa ha dato una risposta importante ai suoi compatrioti e a tutti noi. Ai tedeschi ha indicato una strada tutta nuova per ottenere il desiderato “riscatto” e a tutti gli altri ha indicato la risposta alla domanda “cosa vuol dire essere europei?”

Oggi è un giorno importante per l’Europa, per la sua identità culturale. Infatti proprio cinquanta anni fa il cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Willy Brandt, il 6 dicembre 1970, si recò a Varsavia per firmare un accordo bilaterale molto importante: con quel trattato Bonn riconosceva di fatto la perdita da parte tedesca dei territori oltre l’Oder-Neisse.

Già questo era un atto di enorme portata, segnando l’inizio della rinuncia a quel revenscismo tedesco che veniva temuto da molti, e che solo nel 1992, unificata la Germania, avrebbe visto la definitiva rinuncia a quei territori. Dunque il nazionalismo e il revanscismo avevano già in quella in firma una prima, importante, risposta. La mattina seguente, 7 dicembre, il protocollo prevedeva due cerimonie: nella prima il cancelliere avrebbe deposto una corona al monumento al milite ignoto, e subito dopo si sarebbe recato a rendere omaggio al Monumento agli Eroi del Ghetto di Varsavia. La prima cerimonia aveva un’oggettiva importanza, essendosi al tempo in piena guerra fredda. Anche per questo, probabilmente, pochi giornalisti, non potendo seguire entrambi gli eventi, scelsero di essere presenti alla seconda cerimonia.

Lo fecero Roberto Giardina e Tito Sansa. Quando giunse davanti al monumento agli eroi del Ghetto Willy Brandt si inginocchiò, o forse cadde in ginocchio, come è stato scritto. Il gesto, ebbe modo di affermare successivamente lo stesso Brandt, non era stato preparato, gli venne dal cuore. Quell’evento è stato giustamente definito storico e, l’anno seguente, Willy Brandt fu doverosamente insignito del Premio Nobel per la pace. È solo storia? Ha scritto in queste ore David Bidussa, storico sociale delle idee, del gesto muto, in solitudine, di Willy Brandt: “Non fu accolto né con favore né come un atto dovuto e liberatorio né in Germania, né in Polonia. Per molti in Germania quel gesto voleva dire responsabilizzarsi di un atto non loro. Per quasi tutti in Polonia voleva dire riconoscere un primato alle vittime ‘non polacche’. Quanto quelle reazioni parlano dei sentimenti in atto nel nostro tempo?”.

Willy Brandt non viene usualmente citato tra i padri dell’Europa, il progetto europeo è nato prima di allora. Ma Willy Brandt è il padre del progetto europeo perché in quei giorni culminati in quell’inginocchiarsi davanti al Monumento agli Eroi del Ghetto di Varsavia, il memoriale della Shoah, ha dato una risposta importante ai suoi compatrioti e a tutti noi. Ai tedeschi ha indicato una strada tutta nuova per ottenere il desiderato “riscatto”, come ha osservato con grande acume Amin Maalouf, una strada che passa anche dal coraggio di chiedere perdono, e a tutti gli europei ha indicato la risposta alla domanda “cosa vuol dire essere europei?”

Oggi, cinquant’anni dopo, il gesto di Brandt mi ha fatto ricordare alcuni passaggi cruciali del pontificato di papa Francesco: non c’era qualcosa di simile nella sua decisione di entrare solo e silente nel campo di sterminio di Auschwitz quando vi si recò nel 2016? Nel suo discorso al Parlamento Europeo del 2014 Bergoglio aveva sottolineato: “La ‘dignità’ è una parola-chiave che ha caratterizzato la ripresa del secondo dopoguerra. La nostra storia recente si contraddistingue per l’indubbia centralità della promozione della dignità umana contro le molteplici violenze e discriminazioni, che neppure in Europa sono mancate nel corso dei secoli. La percezione dell’importanza dei diritti umani nasce proprio come esito di un lungo cammino, fatto anche di molteplici sofferenze e sacrifici, che ha contribuito a formare la coscienza della preziosità, unicità e irripetibilità di ogni singola persona umana”. Questo punto è fondamentale per collegare le reazioni di allora a quanto avviene nelle nostre società oggi. Il gesto di Brandt infatti venne ritenuto “poco patriottico”. Ha scritto proprio dieci anni fa Roberto Giardina, testimone della visita di Brandt a Varsavia al riguardo delle reazioni a quella decisione del cancelliere in Germania: “Il 65% riteneva che Brandt si sarebbe potuto inginocchiare come semplice cittadino, non come rappresentante della repubblica federale. Anche i polacchi non gradirono: perché non inginocchiarsi innanzi al milite ignoto? Gli ebrei in Polonia erano sempre poco amati. Nel museo della storia, che Helmut Kohl fece costruire a Bonn, la foto di Willy in ginocchio è nascosta in un cassetto, e bisogna aprirlo per poterla studiare. A meno che, nel frattempo, non le abbiano dato un posto più dignitoso”.

Concludendo il suo discorso quando gli è stato conferito il premio Carlo Magno nel 2016, papa Francesco ha detto: “Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia”. Forse è stato anche per questo che ha voluto che fosse a Lampedusa il primo viaggio del suo pontificato. Non a caso sempre nel discorso citato disse che “noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari”.

In questo tempo difficile mi sembra che il punto su cui riflettere, da tutti i campi culturali, sia quello indicato da Francesco davanti agli eurodeputati: “Come dunque ridare speranza al futuro, così che, a partire dalle giovani generazioni, si ritrovi la fiducia per perseguire il grande ideale di un’Europa unita e in pace, creativa e intraprendente, rispettosa dei diritti e consapevole dei propri doveri? Per rispondere a questa domanda, permettetemi di ricorrere a un’immagine. Uno dei più celebri affreschi di Raffaello che si trovano in Vaticano raffigura la cosiddetta Scuola di Atene. Al suo centro vi sono Platone e Aristotele. Il primo con il dito che punta verso l’alto, verso il mondo delle idee, potremmo dire verso il cielo; il secondo tende la mano in avanti, verso chi guarda, verso la terra, la realtà concreta. Mi pare un’immagine che ben descrive l’Europa e la sua storia, fatta del continuo incontro tra cielo e terra, dove il cielo indica l’apertura al trascendente, a Dio, che ha da sempre contraddistinto l’uomo europeo, e la terra rappresenta la sua capacità pratica e concreta di affrontare le situazioni e i problemi. Il futuro dell’Europa dipende dalla riscoperta del nesso vitale e inseparabile fra questi due elementi. Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima e anche quello “spirito umanistico” che pure ama e difende”.

L’Europa che quel 7 dicembre incarnò Willy Brandt inginocchiandosi a Varsavia indicava la sua anima.



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