Tra Recovery Plan e riforme, la domanda è: ma le radicali riforme di cui ha bisogno il nostro Paese richiedono investimenti di natura finanziaria? Il commento di Massimo Balducci
Il dibattito acceso sulla destinazione delle risorse del Next Generation Eu si sta incrociando con quello sulle riforme. La domanda che ci vogliamo porre qui è: ma le radicali riforme di cui ha bisogno il nostro Paese richiedono investimenti di natura finanziaria? O, piuttosto, se non facciamo le riforme di cui abbiamo bisogno, non riusciremo a spendere le risorse finanziarie del Next Generation Eu o, ancora peggio, queste risorse andranno ad incrementare l’area grigia delle risorse pubbliche sperperate in iniziative bordeline che servono solo a chi è pagato per metterle in opera.
Qui di seguito faremo alcuni esempi: riforma della pubblica amministrazione e il nodo rappresentato dall’incrocio domanda/offerta di lavoro e formazione professionale. Vediamo I 2 punti singolarmente. Riforma della pubblica amministrazione. Qui si tratta di realizzare due interventi: uno che riguarda l’organizzazione del lavoro ed uno che riguarda le risorse umane. Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro si tratta di passare da una organizzazione del lavoro basata sul coordinamento gerarchico ad una organizzazione del lavoro basata sul coordinamento incentrato sui processi.
Attualmente tutte le attività realizzate devono essere supervisionate e approvate dal dirigente. Nel modello basato sui processi il dirigente decide come le varie tipologie di problematiche vadano affrontate e poi lascia i collaboratori fare quello che ha deciso. In questo caso i collaboratori ricorrono al dirigente solo quando si verificano casi imprevisti. Nel settanta 70% e magari nell’ 80% dei casi il dirigente non deve intervenire. Nel primo modello, quello oggi in vigore, il dirigente deve decidere ogni singolo caso. Il collaboratore si limita ad istruire la pratica (i funzionari sono, guarda caso, inquadrati come “istruttori amministrativi”).
Nel secondo modello il dirigente decide come trattare intere tipologie di casi e non interviene sulla singola pratica. Nel primo modello ogni atto deve essere firmato dal dirigente che, vista la mole di lavoro, si trova tra due alternative: o legge tutti gli atti che gli vengono sottoposti dall’istruttore amministrativo e, in questo modo, accumula ritardi biblici; o appone delle firme inconsapevoli. Il passaggio dall’attuale modello all’organizzazione per processi non richiede grandi risorse. Si tratta di far riferimento e generalizzare le esperienze positive già esistenti nella nostra amministrazione (richiamo qui le riforme realizzate da Billia all’Inps e all’Inail negli anni ‘80) e, magari, di richiedere l’affiancamento di istituti che hanno esperienza nell’accompagnare Pubbliche amministrazione in questo passaggio.
Penso in particolare allo European Institute of Public Administration (Eipa) di Maastricht ed al suo programma ad hoc, Common Assessment Framework. Si tratta di interventi il cui costo si aggira nell’ordine di qualche milione di euro. Del resto, senza questa operazione di procedimentalizzazione la digitalizzazione della Pa si trasformerebbe nella cristallizzazione della confusione oggi esistente.
Per quanto riguarda le risorse umane, sarebbe opportuno pensare ad un intervento dall’impatto duraturo. Sarebbe opportuno concentrarsi sul reclutamento in modo da programmare l’inserimento della nostra pubblica amministrazione di risorse umane costantemente aggiornate. Attualmente la selezione avviene attraverso concorsi banditi dalle singole amministrazioni ogni volta che c’è bisogno di sostituire qualcuno o di far fronte a nuovi compiti. Questo meccanismo comporta tre disfunzioni:
1) tra l’apertura della vacanza del posto e l’entrata in servizio del neoassunto intercorre un lungo periodo di tempo (spesso più di un anno)
2) ogni amministrazione recluta con criteri diversi, rendendo in questo modo difficile la mobilità tra amministrazioni
3) ogni amministrazione tende a perpetuare nel tempo le figure professionali di cui dispone tradizionalmente senza saper concepire il loro sviluppo.
Qui si tratta di:
1) creare una griglia di profili professionali che copra l’intero spettro delle amministrazioni
2) organizzare le prove selettive a scadenza fissa, basando la previsione dei fabbisogni sull’analisi dell’andamento storico del turn-over e su opportuni strumenti di valutazione delle necessità di aggiornamento dei profili. Qui va segnalato un problema strettamente correlato, quello dell’opportunità di introdurre meccanismi selettivi che diano peso non solo al sapere teorico (come avviene ora) ma anche al saper fare; qui si prospettano tre possibili soluzioni:
• quella riconducibile al modello germanico, dove l’accesso al pubblico impiego è aperto a chi ha frequentato delle speciali Università Tecniche (le Verwaltungsfachhochschulen) dove, utilizzando il metodo duale (alternanza aula-ufficio) si formano risorse umane formate al sapere e al saper fare
• quella francese, dove i laureati (quindi forniti di sapere) sono selezionati o per essere formati negli Inet (funzione pubblica locale) o gli Ira ed Ena (funzione pubblica nazionale) dove acquisiscono il saper fare;
• l’esempio belga dove i neoreclutati seguono un programma di inserimento guidato e progressivo (Selor/ talent).
Soprattutto va evidenziato che la nostra amministrazione (nel cui seno esistono grandi professionalità) si sta già muovendo in questo senso. Mi permetto di segnalare qui il rapporto elaborato nel 2017 dal dr. Pierluigi Mastrogiuseppe e dal dr. Saverio Lovergine Modelli di rappresentazione delle professioni e relative competenze: ipotesi di lavoro per la Pa sulla base di una convenzione tra Dipartimento della Funzione Pubblica e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale (ARAN) va chiaramente in questo senso.
I costi di una simile riforma sono abbastanza contenuti, nell’ordine di qualche decina di milioni di euro. Anche qui va rimarcato che l’informatica può giocare un ruolo fondamentale ma a condizione che vengano a priori messe a punto le griglie dei profili professionali. L’incontro domanda/offerta di lavoro e i fondi interprofessionali. Qui non si tratta soltanto di dimenticare la triste esperienza dei “navigator”, ma di proporre una soluzione adeguata. Per fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro bisogna creare una griglia di profili professionali su cui realizzare questo incontro. Si tratta di mettere a fuoco alcune esperienze regionali (Toscana, Provincia di Trento, Provincia di Bolzano, Piemonte) e di farle confluire nel prograamma Ue “esco”.
Queste griglie possono servire non solo a favorire l’incontro domanda/offerta di lavoro ma anche ad articolare la formazione e l’aggiornamento professionale (può essere utile a questo proposito consultare il sito www.orientamento.ch dove si declina in italiano il sistema). In questo caso i costi non solo sarebbero limitati ma si potrebbero realizzare sostanziosi risparmi recuperando le risorse dei fondi interprofessionali. Riassumo in maniera schematica l’argomento.
Per ogni dipendente del settore privato (inclusi i soci lavoratori delle cooperative) viene versato dal datore di lavoro lo 0,30% del salario lordo ad un fondo presso l’Inps. Enti bilaterali ad hoc, costituiti da per lo meno un sindacato ed una organizzazione datoriale (ne esistono 21), possono richiedere questi fondi per realizzare interventi di aggiornamento professionale. Ogni impresa ha il suo proprio “conto impresa” su cui finanziare i propri corsi. Dal momento che la maggioranza delle nostre imprese sono piccole o micro (meno di 10 addetti), esse non riescono a cubare un ammontare sufficiente a finanziare corsi.
Questo sta dando vita ad un meccanismo opaco di intermediari che accoppiano più imprese per poter realizzare corsi che, alla fine, non servono a nessuno. Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che, anziché limitarsi a finanziare corsi miranti all’aggiornamento del capitale umano, questi fondi vengono utilizzati anche per scopi attinenti esclusivamente all’azienda: i corsi più diffusi sono i corsi sulla “sicurezza sul lavoro” che i datori di lavoro devono garantire per legge. É evidente che urge far confluire questi fondi nel meccanismo delle griglie di profili professionali citati sopra.
In generale sembra sfuggire ai nostri vertici istituzionali il fatto che l’incrocio Next Generation Eu e riforme non è solo una questione di risorse finanziarie. Le riforme richiedono innanzi tutto la capacità di cambiare dei comportamenti. Le risorse finanziare non sempre sono utili a questo scopo. Se non si cambiano i meccanismi di spesa, del resto, non saremo in grado di spendere le risorse. La digitalizzazione resterà incompiuta se non cambiamo la nostra organizzazione amministrativa: l’informatica non funziona se non ci sono processi.