L’ottimismo del governo sullo sviluppo atteso ha basi fragili, mentre sarebbe stato più opportuno dare prova di prudenza nel fare elargizioni a pioggia e concentrare le risorse sulle spese più produttive. Altrettanto saggio sarebbe predisporre sin d’ora un piano di riserva da attuare rapidamente nel caso in cui la crescita risultasse inferiore alle aspettative. L’analisi di Salvatore Zecchini
Il bilancio pubblico precipitosamente approvato a fine anno è il coronamento di un anno drammatico per gli italiani e per l’economia, presentandosi con tutti i connotati di una scommessa ad alto rischio sulla crescita economica nel prossimo triennio. Ad alto rischio perché se la creazione di nuova ricchezza, vuoi anche al lordo dell’inflazione piuttosto che a prezzi concatenati, non fosse molto vigorosa negli anni, il debito pubblico dal 2023, con il ritorno della politica monetaria e dei mercati finanziari alla normale configurazione, diverrebbe insostenibile.
Questa evidente prospettiva è ben nota ai governanti attuali, ma non trova risposta nella politica di bilancio decisa per il prossimo triennio, perché manca di una strategia per ridurre il rischio di una crisi finanziaria a termine. Forse, si pensa che tutti gli aiuti da continuare a elargire a destra e a manca anche nel 2021 spingeranno i consumi privati e per via indotta gli investimenti, o che i copiosi incentivi a questi ultimi solleciteranno per sé stessi la propensione delle imprese a investire, o che le esportazioni aumenteranno rapidamente dopo il calo dello scorso anno, o forse che, se si perdesse la scommessa, sarà il nuovo governo che uscirà dalle urne nel 2023, se non prima, a doversi occupare di adottare le dolorose misure per riportare la finanza pubblica in ordine. A quel punto sarebbe l’Ue a dettare modi e tempi del ritorno alla sostenibilità con poco spazio per il governo di dilazionare la correzione.
La manovra del governo va considerata nella sua duplice articolazione della legge di bilancio per il 2021 (40 miliardi) e del Piano per la Ripresa e Resilienza (PNRR) (196 miliardi per più anni), che è ancora in gestazione. La prima vede il prevalere di nuove spese correnti, distribuite a pioggia in tutte le direzioni, insieme a riduzioni della tassazione, ovvero degli introiti fiscali, senza un’adeguata considerazione del gonfiamento del deficit, la cui copertura è affidata in buona parte all’ipotetica crescita e all’acquisto da parte della BCE dei nuovi titoli emessi. Si è voluto preservare posti di lavoro ed imprese dall’estinzione, quasi a realizzare un fermo-immagine in un film drammatico da cui si attende il lieto fine. Ma in diversi casi le maggiori spese non trovano una buona giustificazione nella necessità o di aiutare lavoratori ed imprese, o di fronteggiare l’emergenza sanitaria.
I comparti del settore dei servizi (hotel, ristoranti, logistica, attività culturali, sportive e ricreative) che hanno accusato il maggior crollo degli introiti rispetto al resto dell’economia hanno ricevuto compensazioni modeste e in ritardo. Lo stesso si può dire per alcune categorie di lavoratori, mentre alcuni aiuti sono andati a quanti non ne erano meritevoli o non in condizioni di bisogno. In breve, l’erogazione dell’assistenza a lavoratori ed imprese ha mostrato ancora una volta la farraginosità delle procedure e l’inadeguatezza della pubblica amministrazione nel gestire la spesa e nel garantire che i sostegni vadano ai più vulnerabili in tempi ravvicinati. Non meraviglia neanche che in sede di definizione del bilancio il governo dei 5 Stelle non abbia contrastato la consueta moltitudine di microinterventi di spesa diretti a soddisfare piccoli interessi di parte dalla dubbia rilevanza per la crescita.
Di riflesso, si è lasciato lievitare il deficit di bilancio oltre il 10% del Pil nel 2020 e si è programmato un suo lento riassorbimento nel 2021 (7%) e nel biennio successivo, con un profilo temporale che già pecca di ottimismo in rapporto all’espansione del PIL, come ha anche stimato un ente indipendente quale l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Aiuti, sovvenzioni e sussidi indubbiamente si tradurranno in maggiori consumi con l’allentarsi delle restrizioni dovute alla pandemia, ma lo shock della recessione inciderà sulla futura propensione alla spesa di famiglie ed imprese, con la conseguenza che una parte delle risorse sarà risparmiata per ricostituire riserve per i periodi bui. L’impulso ai consumi ne risulterà quindi, attenuato, limitandone il potenziale effetto per il rimbalzo della crescita.
Dal lato della spesa per investimenti il governo ha assegnato consistenti fondi al potenziamento degli investimenti pubblici e ancor più a sovvenzionare quelli delle imprese, alla digitalizzazione del Paese, all’innovazione tecnologica e ricerca, al miglioramento della formazione delle forze di lavoro nelle nuove tecnologie. Gli interventi ricalcano in gran parte quelli varati nel 2019, con ampliamenti del campo dei beneficiari, della misura del sostegno e della portata temporale per garantire continuità all’azione di supporto. Gli elementi di novità sono pochi ma con un grande potenziale di cambiamenti.
In particolare, si procede a rafforzare l’intervento pubblico nel capitale delle imprese anche per quelle di dimensioni meno grandi al fine di favorire un ritorno della loro leva finanziaria su livelli sostenibili dopo l’eccessivo indebitamento a cui sono state costrette durante la recessione. L’intervento si aggiunge ai crediti d’imposta per quelle società che procedono ad aumenti di capitale e per le operazioni di fusioni ed acquisizioni, misura volta ad incentivare la crescita dimensionale delle imprese in funzione di una loro maggiore resilienza. Al tempo stesso viene potenziato il raggio di azione della struttura ministeriale per assecondare la soluzione delle crisi d’impresa. Sebbene questi interventi siano presentati come di durata limitata negli anni, di fatto configurano una strisciante espansione della presenza pubblica nel sistema produttivo i cui sviluppi nel tempo sono imponderabili. La storia economica insegna come questa espansioni iniziano in periodi di crisi, gravano sulla finanza pubblica a lungo e si consolidano nel tempo per concludersi dopo decenni in rovinose liquidazioni.
L’altra novità è l’avvio della riforma delle imposte sui redditi e dei contributi sociali. Si inizia con un alleggerimento del cuneo fiscale (sotto forma di fiscalizzazione degli oneri sociali) limitato alla fascia dei lavoratori dipendenti a medio reddito, a cui si aggiungono gli sgravi contributivi sulle assunzioni di lavoratori nel Mezzogiorno e nelle Zone Economiche Speciali. Un avvio molto ristretto, ma che rappresenta l’unico segno di voler sostenere la crescita con riforme strutturali. È invece assente il fattore di maggior impatto per la crescita, ossia le riforme di grande respiro nella disciplina e costo del lavoro, nella giustizia, nei programmi di istruzione e formazione, nelle politiche per le grandi infrastrutture energetiche, dei trasporti e telecomunicazioni. Al loro posto numerose assunzioni con poche selezioni, finanziamenti mirati all’imprenditoria femminile, alle PMI “creative”, assunzioni nella scuola e rifinanziamenti di molti fondi per l’occupazione.
Il grosso degli impulsi alla crescita dovrebbe provenire dai finanziamenti europei per il PNRR che andrebbero indirizzati a progetti di investimento ed a riforme di struttura. I tempi lunghi previsti per la loro realizzazione e la destinazione dei fondi non lasciano prevedere una crescita rapida e sostenuta. Tra i 52 raggruppamenti di progetti selezionati nella bozza di programma attualmente nota, meno dei due terzi (61,6%) è destinata ad investimenti aggiuntivi a quelli già inclusi nella legge di bilancio. Tra questi il 37% circa è direttamente rivolto agli investimenti delle imprese, che peraltro potranno beneficiare delle ricadute produttive degli interventi diretti alla digitalizzazione di sanità, PA e scuola, alla rivoluzione verde e alla formazione 4.0. Gli altri 74 miliardi dei 196 programmati andrebbero a progetti già avviati che in assenza dei fondi europei avrebbero attinto ai consueti fondi di bilancio e a quelli strutturali dell’UE.
Evidentemente, l’impatto dei diversi progetti in funzione di una crescita più alta differirà notevolmente, sia per la presenza di una componente “non aggiuntiva” a quanto già scontato negli andamenti tendenziali, sia per la diversità dei tempi di attuazione, sia anche perché i guadagni di produttività realizzabili nei prossimi anni variano da progetto a progetto. Ad esempio, il miglioramento delle condizioni di contesto, come quello derivante da nuove infrastrutture, dall’innalzamento delle competenze delle forze di lavoro, dalla riorganizzazione e modernizzazione della PA e dallo snellimento delle procedure giudiziarie potranno mostrare le loro ricadute benefiche per la competitività del sistema produttivo solo dopo diversi anni, come si è visto con le riforme del governo Monti. Lo stesso avanzamento tecnologico in programma e le risorse dedicate alla innovazione e ricerca richiederanno anni per poter ottenere una diffusa applicazione nel mondo produttivo. Quindi, le proiezioni di crescita incrementale rispetto al trend da parte del governo e anche di centri di ricerca, che fanno leva su modelli econometrici di equilibrio generale, vanno considerate come stime probabilistiche con un ampio margine di errore e fondate su irrealistiche ipotesi di fissità nel tempo degli altri fattori di sviluppo. Probabilmente una concentrazione delle risorse su un numero meno esteso di progetti di dimensioni più grandi e dal diretto e rapido impatto sul potenziale di crescita avrebbe permesso di ridurre l’incertezza sull’andamento economico nel triennio considerato.
In ogni caso, l’ottimismo del governo sullo sviluppo atteso prossimamente ha basi fragili, mentre sarebbe stato più opportuno dare prova di prudenza nel fare elargizioni a pioggia e concentrare le risorse sulle spese più produttive. Altrettanto saggio sarebbe predisporre sin d’ora un piano di riserva da attuare rapidamente nel caso in cui la crescita risultasse inferiore alle aspettative. Va, infatti, tenuto ben presente costantemente che nelle condizioni attuali la sostenibilità del macigno del debito pubblico è appesa ai comportamenti nelle politiche per la crescita più che al soccorso finanziario disponibile a condizioni vincolanti presso l’Ue ed i mercati.