Il successo del film Netflix sull’Isola delle Rose rispecchia il fascino (attualissimo) della sovranità e il ritorno al centro del dibattito pubblico della dimensione statuale ai tempi della pandemia globale. Una recensione geopolitica di Igor Pellicciari, professore di Storia delle Relazioni internazionali alla Luiss e all’Università di Urbino
“Cosa può fare per Lei il Consiglio d’Europa?”. “Voglio salvare la mia isola”. È il clou del film L’Isola delle Rose, tra i rari momenti di leggerezza che ci lascia l’anno finalmente trascorso. E che tocca, seppure a modo suo, questioni internazionali che intrigano il grande pubblico in genere poco avvezzo di politica estera.
Produzione italiana distribuita da Netflix, sta riscuotendo un interesse oltre le previsioni e supera gli stessi confini nazionali, dove pure non era scontato si affermasse, vista la fortuna televisiva in tempi recenti di altre Isole trash come quella dei Famosi o ultra-trash come Temptation Island. È un successo che solo in parte si spiega con la qualità della pellicola, accolta dalla critica con giudizi neutri.
L’impressione è che il richiamo sia più verso la curiosa storia dell’ingegnere bolognese Giorgio Rosa che nel 1968 si costruisce una propria piattaforma in mezzo al mare davanti a Rimini e poi la dichiara Stato indipendente.
Come spesso accade, la trama precede la popolarità della stessa pellicola, relegandone la visione ad aspetto secondario. A suscitare sorpresa semmai è l’interesse odierno per avvenimenti di più di mezzo secolo fa, dopo che per decenni se ne è parlato poco, non certo per omertà.
I motivi “esogeni” di popolarità del film, che prescindono dalle sue doti, dicono molto del sentire popolare e aiutano a capire paure e ambizioni del momento.
In effetti, al netto dei comprensibili toni romanzati per ragioni di sceneggiatura, il film offre numerosi spunti su cui fantasticare. Alcuni rimandano a temi classici che da sempre suscitano notevole interesse cinematografico.
Tra i principali argomenti sempreverdi vi è quello del cavaliere solitario che, a dispetto di tutto e tutti, riesce a realizzare il proprio sogno puro e quasi ingenuo nelle sue premesse. È una poetica che ha ispirato decine di produzioni, tanto più se gli avvenimenti narrati sono “tratti da fatti realmente accaduti” (formula ricorrente nell’era di overdose da Netflix).
Un altro argomento classico è quello alla fuga di libertà verso un mondo nuovo, lontano dal senso di inadeguatezza del quotidiano, a sua volta presente nella cinematografia italiana recente (ad es. nei film di Gabriele Salvatores e Paolo Virzì).
Accanto a questi, vi sono però altri temi attualizzati dalla loro concomitanza con la pandemia del Covid, tra cui questioni di diritto internazionale, piuttosto inusuali per una commedia. La più evidente è l’attrattiva che esercita sul grande pubblico l’utopia di una simil-micro-nazione di 400 mq che sorge sospesa su un non-spazio, fuori dalle acque territoriali italiane.
È indicatore di un ritrovato amore popolare per la sovranità e l’inviolabilità dei confini, prima del Covid-19 di esclusivo interesse tecnico per gli addetti al settore e politico per le formazioni sovraniste.
Questo tema si incrocia con la potente simbologia del micro nella dimensione statuale, dove più piccola è la estensione territoriale e maggiore è il richiamo dell’immaginario, come ci dice il fascino esercitato nel tempo dalle sovranità (vere) della Repubblica di San Marino, di Andorra o del Principato di Monaco.
È inoltre comprensibile come nella rinnovata politicizzazione delle masse dovuta al Covid (è scomparso il “non mi interesso di politica” dei tempi precedenti ai Dpcm che regolano la nostra vita privata) a beneficiarne sia stata anche una maggiore attenzione alle questioni internazionali. Che sono tornate ad appassionare come ai tempi della Guerra Fredda.
Tuttavia, esse sono state affrontate in maniera superficiale, senza approfondimento (si veda ne L’Isola delle Rose la raffigurazione ingenua del ruolo dell’Onu e del Consiglio d’Europa).
Da questo punto di vista il film è un’occasione persa anche se ha il merito di avere riportato alla ribalta una storia che è tutta italiana: dalla creatività della sua genesi alla ottusità burocratica della sua fine.
Se infatti solo i non addetti ai lavori possono credere, ora come allora, che l’Isola delle Rose potesse veramente diventare un vero Stato sovrano, l’epilogo della vicenda poteva e doveva essere diverso. Testimonia uno dei tanti errori politici del governo italiano sessantottino, nel momento in cui decise (con mezzi ed effetti grotteschi) di usare la forza per porre fine alla piattaforma dell’ingegner Rosa.
Come dimostra il caso simile della piattaforma Sealand, “fondata” a largo delle coste britanniche nello stesso periodo di quella riminese, il mancato riconoscimento della sovranità non determina automaticamente la necessità di distruggerla e di porre fine ad un’illusione tutto sommato innocua.
Benché non fosse stata costruita da chi ne dichiarò la “sovranità” (era una piattaforma militare abbandonata della Seconda Guerra Mondiale) e a nulla valessero i tentativi di accreditarla come “Principato” – Sealand ha resistito fino ai giorni nostri, tollerata come uno scherzo aneddotico del sistema internazionale. Che per paradosso ha reso ancora più forte la credibilità diplomatica di Londra.
Non è eccessivo ipotizzare che sia stato proprio l’uso sproporzionato della forza contro l’Isola delle Rose ad averle garantito imperitura memoria, tale da giustificare oggi il non banale investimento economico che richiede il dedicarle un film.
In definitiva, tra le varie cose che abbiamo riscoperto durante i lunghi lockdown del Covid-19, vi è l’aspirazione di ciascuno di noi a trovare rifugio su un’Isola personale. Il cui fascino è tanto più grande se non esiste.