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La crisi di governo davanti ai riflettori dell’Europa. La lettura di Tivelli

I giochi e i giochetti con cui si va costruendo un’alleanza necessariamente di governo non possono generare che ulteriore diffidenza nelle capitali europee e a Bruxelles (ciò di cui non ci sarebbe proprio bisogno) verso l’Italia. L’analisi di Luigi Tivelli

Le scene andate in onda sullo scenario politico istituzionale e soprattutto nei corridoi e negli anfratti del Palazzo del senato tra il 14 e il 19 Gennaio sono tra quelle meno meritevoli di passare agli annali degli ultimi decenni.

È vero infatti che la crisi di governo era deflagrata con le parole forti e i toni alti di Matteo Renzi, che nel corso di una conferenza stampa con le ministre dimissionarie e silenziose a fianco aveva portato i suoi attacchi all’arma bianca al premier Conte, accusandolo fra l’altro di un vulnus istituzionale, senza però chiudere del tutto la strada ad una eventuale possibilità di sostenere un Conte Ter se in parte fossero state accettate le sue richieste.

In fondo Renzi, pur con i suoi toni altamente egocentrici e un po’ “napoleonici” da varie settimane stava facendo qualcosa di simile a quello che avevano fatto a suo tempo in più di qualche occasione i leader di un nobile partito, come il Partito Repubblicano, che si chiamassero Ugo La Malfa o Giovanni Spadolini o Giorgio La Malfa, cioè porre condizioni e chiedere precisi contenuti ai quali condizionavano il loro appoggio al governo, però con un metodo, uno stile, ed una “educazione istituzionale” un po’ differenti da quelli di Renzi. Ma la reazione di Renzi è nata anche dal non aver trovato quasi alcuna risposta alle sue richieste sui contenuti, vuoi che si trattasse del Mes, vuoi che si trattasse della governance del Recovery Fund o della cessione da parte del premier della delega sui servizi segreti o di altro. La reazione di Renzi sarà stata certamente sopra le righe, ma mi è sembrata sopra le righe anche l’immediata reazione di “lesa maestà” del premier Giuseppe Conte, che ha immediatamente replicato “mai più” una maggioranza con l’Italia Viva e con Renzi, una reazione alla quale, non vedo sulla base di quale convenienza, si è subito associato il Pd, come se entrambi avessero in tasca e già confezionata chissà quale alternativa.

L’alternativa si è rivelata invece, almeno in una prima fase quanto di peggio ci si potesse aspettare, cioè l’immediata corsa alla ricerca tra le file sparse dei parlamentari di “volenterosi” o “responsabili”, che Luigi Di Maio, mutuando la formula da un ben altro significato che il presidente Sergio Mattarella gli aveva attribuito, denominava “costruttori”, chiamati a sostituire le truppe mancanti di Italia Viva per trovare in qualche modo una maggioranza qualunque fosse per il governo. E questo con il solito ottimismo un po’ di troppo del presidente Conte che dai primi giorni faceva filtrare notizie molto positive, mentre man mano coloro che venivano dati, che fossero “responsabili” o “voltagabbana”, della partita, a cominciare dal nucleo della forza centrista del Udc, annunciavano di restare ben attestati nella coalizione del centrodestra: e allora dalle parti del premier, con l’avallo del Pd, si faceva passare la linea per cui per la votazione in Senato bastava una maggioranza relativa. E così Renzi, che da parte di Conte e del Pd era stato letteralmente messo all’indice e fatto infilzare dagli organi di stampa amici, ha trovato un suo modo di rientrare in partita inducendo il suo gruppo parlamentare al Senato alla astensione.

Nel frattempo si sviluppava uno spettacolo favorito dal nuovo modello che si era affermato, che è un’evoluzione di quello che sta alla base dei 5 Stelle: “1 vale 1” è diventato “1 vale 1 basta che stia con noi”, come ha scritto con la solita sagacia Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera. In questa rincorsa dei senatori “responsabili o voltagabbana” si sono rinnovati i “bei tempi” dei Razzi e dei Scilipoti, è riapparso all’opera sulla scena, per conto anche della moglie e senatrice Sandra Lonardo, Clemente Mastella, ma, sulla base di quanto ha scritto con determinazione e coraggio Massimo Giannini nel suo editoriale domenicale sembra siano stati messi in campo dal premier anche ben altri poteri. Sotto il titolo “aspettando il governo dei migliori..” il direttore de la Stampa racconta di un presidente del Consiglio che “cerca di evitare la sua uscita di scena da Palazzo Chigi con l’abilità e l’ambiguità che si convengono a un consumato notabile della Prima Repubblica: quaggiù tutto è zona grigia, partita di scambio, trattativa sotto banco”. Manca “trasparenza” – nota Giannini – e fa nomi e cognomi: “Le cronache narrano di senatori contattati da noti legali vicini al Premier, da presidenti di Ordini forensi a nome dello studio Alpa, da generali della guardia di finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicino al cardinale Bassetti e altri vicini alla comunità di Sant’Egidio. Ovviamente Palazzo Chigi ha smentito ma mi sembra una di quelle smentite che sono una sorta di atto dovuto in casi come questi”.

Ma il punto è questo, una maggioranza e un governo che devono affrontare sempre con più determinazione un’emergenza sanitaria ed economica di dimensioni enormi può essere fondata su un’alleanza provvisoria e fragile costruita con questi metodi? Non si è sempre ripetuto in questi ultimi mesi (e in fondo non era questa anche una delle istanze di Renzi) che serviva un patto di legislatura e una squadra di governo di qualità? Il fatto è che sia gli attori del governo sia i leader politici non tengono conto che questo genere di giochetti non maturano solo sotto quella coltre di provincialismo che mai non viene meno, tra le mura aureliane e il chiuso del Senato. Questo mix di chiusura un po’ nazionalistico provinciale per i modi in cui viene gestita la crisi di governo, avviene infatti con lo sguardo ben poco rivolto all’orizzonte europeo eppure già siamo sotto gli occhi di Bruxelles per i limiti dell’ultima bozza del Recovery Plan specie per quanto riguarda l’intreccio fra progetti e riforme che preoccupa non poco gli osservatori comunitari.

Sulle necessarie, profonde riforme di sistema infatti alla fin fine il Piano reca soltanto espressioni di intenti generici senza dettagli concreti sulle azioni e sui cambiamenti che si vogliono ottenere, e senza radicali e concrete riforme strutturali ben difficilmente si otterranno risultati positivi sulla crescita, tenuto conto anche della lunghezza delle procedure in Italia per la progettazione e le autorizzazioni degli interventi, soprattutto per quanto riguarda i poteri territoriali. A dimostrare che siamo sempre sotto i riflettori dell’Europa c’è fra l’altro l’intervista a Repubblica del 17 gennaio, di Lars Feld, l’autorevole capo del team di saggi sull’economia di Angela Merkel, che dà una valutazione critica dell’ultima versione del Recovery Plan e degli ultimi avvenimenti politici italiani. D’altronde i giochi e i giochetti con cui si va costruendo un’alleanza necessariamente di governo non possono generare che ulteriore diffidenza nelle capitali europee e a Bruxelles (ciò di cui non ci sarebbe proprio bisogno) verso l’Italia.

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