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Da Trump a Q-Anon, se la censura è un boomerang (anche per gli 007)

Trump, Q-Anon e gli intolleranti devono essere rimossi da Twitter e l’universo social? Siamo sicuri che la censura non diventi un boomerang, anche per le agenzie di intelligence? Ecco tre buone ragioni per trovare una strada alternativa. L’analisi di Luigi Curini, docente di Scienze politiche all’Università degli Studi di Milano

Sgombriamo il campo da possibili equivoci. Le immagini dell’irruzione a Capitol Hill dei giorni scorsi disturbano e preoccupano molto. La responsabilità indiretta (nello scenario più benevolo) del presidente Donald Trump a riguardo, anche. Se non quella legale, sicuramente quella politica.

Detto questo, rimane aperto il giudizio sul comportamento subito successivo a questi eventi da parte dei giganti di internet. Riassumiamo: Facebook e Instagram bloccano l’account di Trump a tempo indefinito; Twitter addirittura cancella il suo account (sia privato che quello ufficiale da Potus); Google impedisce la possibilità di scaricare sui cellulari l’app di Parler (l’alter ego di Twitter che piace molto ai conservatori americani). E così via.

Non voglio entrare qua sull’aspetto legale e normativo della cosa. Chi scrive ha ad esempio qualche dubbio a riguardo. Le scelte fatte mi appaiono discrezionali (perché l’account di Trump o non altri account di personalità nel mondo che hanno usato e continuano ad usare un linguaggio ben peggiore di quello sovente impiegato dal presidente americano? Giusto per fare un esempio, l’Ayatollah iraniano?), e quindi politiche. Il che sarebbe del tutto legittimo per un giornale, con gli onori e gli oneri della cosa. In una piattaforma digitale, lascia più di qualche perplessità.

D’altra parte ad aver subito la “purga” su Twitter in questi giorni non è stato solo Trump ma anche migliaia di altri account di persone comuni.

Il che ci porta al punto di questo articolo. Cancellare dai social media profili di soggetti che non solo utilizzano un linguaggio violento, ma che potrebbero anche essere pronti ad impegnarsi in azioni violente un domani, è una strategia da perseguire sempre? A prima vista la risposa sembrerebbe scontata: chiudendo questi account, si riduce il rischio di proselitismo. In realtà, e come spesso accade, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzione.

Se (un se scontato per molti; niente affatto per altri) siamo pronti a riconoscere gli estremisti di QAnon (che paiono aver giocato un ruolo non secondario nei fatti di Capitol Hill) come una potenziale minaccia di terrorismo interno (prendendo per buona la valutazione fatta dall’FBI a metà 2019), allora dobbiamo anche riconoscere l’esistenza di almeno tre punti dolenti riguardo l’implementazione di operazioni di censura on-line, almeno stante a quanto la letteratura sul terrorismo ha recentemente sottolineato.

Primo: internet crea tante vulnerabilità per le organizzazioni terroristiche quanti punti di forza. Da un lato, e ovviamente, i social media forniscono una serie di vantaggi senza precedenti per i gruppi terroristici, come l’interconnettività, l’anonimato, l’economicità, l’accesso ad un nuovo pubblico, e così via.

Dall’altro lato, però, gli svantaggi non mancano. Tra questi, l’opportunità unica di tracciamento e monitoraggio di persone potenzialmente pericolose. In questo senso, censurare account Twitter distrugge una importante fonte di intelligence. Se tu censuri il mio account, io non cambio di certo idea. Sceglierò solo nuovi contesti dove agire, contesti ben più difficilmente controllabili dalle autorità.

Secondo: se è vero che i social media facilitano la comunicazione tra individui che la pensano allo stesso modo (le famose bolle), forniscono però anche un forum dove è possibile discutere anche con chi ha posizioni diverse dalle proprie.

Certamente far cambiare idea a qualcuno è sempre difficile, specie se è un adepto di qualche stramba teoria complottistica. Quello sicuramente certo, però, è che censurare account implica di per sé che questa possibilità di “conversione” attraverso il dibattito semplicemente scompare.

Terzo, e infine, limitare il dibattito nell’arena digitale può ulteriormente radicalizzare ed isolare i simpatizzanti di movimenti terroristici. Ed è questo il pericolo maggiore. Diversi studi mostrano infatti che la diminuzione dei costi di opportunità per le attività non-violente (come protestare ad esempio) diminuisce l’uso della violenza terroristica; in altre parole, consentire l’espressione non violenta del dissenso riduce gli incentivi ad intraprendere azioni violente.

In uno studio che analizza oltre 26 milioni di tweet scritti in arabo tra luglio 2014 e gennaio 2015 che discutevano di Isis in oltre 60 paesi, arriviamo alle stesse conclusioni. Quando i simpatizzanti dello stato islamico hanno trovato un ambiente sui social media nei rispettivi paesi in cui poter condividere e discutere le proprie idee – anche quelle estremiste – il numero di persone che ha scelto di lasciare la propria casa per diventare foreign-fighters è stato minore rispetto a quei paesi in cui il contesto faceva sentire questi stessi simpatizzanti isolati (o dei lupi solitari, utilizzando un’altra famosa espressione).

E cancellare dall’oggi al domani account di utenti simpatizzante dell’Isis va esattamente in questa ultima direzione. Insomma, mostrare tolleranza nei confronti di posizioni radicali può essere la scelta consigliabile.

Un segno di forza, piuttosto che di debolezza. Sarebbe il caso di pensarci un po’ meglio, prima che diventi (forse) troppo tardi.

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