Il timore di molti in Bosnia ed Erzegovina è che i campi profughi si istituzionalizzino fino a diventare delle vere e proprie soluzioni sub-urbane di lungo periodo sul modello palestinese, giordano e libanese. Trasformando l’area in un deposito umano di quei migranti che la Ue non vuole prendere, essendo disposta a pagare l’Onu affinché li gestisca ab limitum. L’analisi di Igor Pellicciari, professore alle università di Urbino e Luiss
Stringe il cuore vedere il calvario senza fine dei migranti in Bosnia intrappolati in una condizione inumana e senza reali prospettive di sblocco.
Le immagini che giungono provocano angoscia anche nell’osservatore più distaccato e stimolano un senso di pìetas che prevale su ogni considerazione politica tanto da farla sembrare quasi fuori luogo.
Eppure, di nuovo, ci si sofferma molto sul “come” della tragedia umana, meno sul suo “perché”.
Che viene ricondotto ad una generica insensibilità delle autorità competenti; che in realtà molto poco dice dei veri motivi dello stallo e delle responsabilità politiche in gioco.
Quanto sta avvenendo nei pressi di Bihać è epilogo inevitabile di una crisi annunciata da tempo; quando gli esperti di flussi migratori avvisarono che la “rotta balcanica” si sarebbe presto riattivata poiché permette a chi proviene dall’Asia e dal Medio Oriente di raggiungere il vecchio continente solo via terra, evitando il rischio di insidiose traversate del mare.
La domanda da porsi quindi è come mai, nonostante questi ripetuti allarmi, ci si trovi oggi a gestire a vista -e male- un’emergenza del genere, senza una soluzione sostenibile nel medio periodo.
Tra le chiavi di lettura meno dibattute ma utili per comprendere il cronicizzarsi di questo immobilismo vi è quella che rimanda alla debolezza istituzionale della governance del problema.
Che riguarda sia il livello bosniaco che quello internazionale.
Il primo paga le contraddizioni di una impostazione costituzionale artificiale, eredità diplomatica degli accordi di pace di Dayton di cui, proprio poche settimane fa, ricorreva il 25. anniversario.
All’epoca funzionale a fermare il conflitto, essa è una delle tipiche soluzioni istituzionali complesse imposte dalla Comunità Internazionale ai paesi in immediata transizione post-bellica, per calmare le acque e soddisfare tutte le parti in conflitto.
Il non avere rivisto questa ridondante impalcatura nei tre decenni successivi (nonostante un “Dayton 2” sia stato evocato con ciclica periodicità) l’ha resa col tempo non solo inadeguata ma addirittura dannosa ad affrontare altre concomitanti transizioni del paese – dalla post-comunista a quella post-indipendenza.
Il tutto ha relegato la Bosnia ed Erzegovina in un limbo da “dopo-la-guerra-prima-della-pace”, dove la ossessiva necessità di dare rappresentanza alle diverse componenti etniche a tutti i livelli istituzionali ha creato un apparato pubblico mostruoso; unicum per la sua ridondanza, bloccato nella governabilità̀ e nei processi decisionali.
La situazione si è incancrenita a tal punto da fare ipotizzare di essere funzionale ad un piano di destabilizzazione controllata forse voluto dalla stessa Comunità Internazionale. Che continua ininterrottamente dal 1995 ad esercitare nel paese fortissime prerogative di protettorato politico diretto attraverso il suo potente “Ufficio dell’Alto Rappresentante” (Office of the High Representative www.ohr.int), garante della implementazione degli accordi di Dayton.
A queste condizioni di sovranità limitata e confusione istituzionale, era assolutamente impensabile aspettarsi che le autorità bosniache (e in particolare quelle di Bihać, storicamente area depressa della Bosnia) avessero autorevolezza politica, capacità amministrativa e risorse necessarie per affrontare questa nuova crisi.
Peraltro, la responsabilità internazionale va ben oltre il fallimento nell’institution building bosniaco e si spinge fino a riguardare decisioni prese dalla UE e dall’ONU che hanno un impatto molto più diretto sulla discutibile gestione dei migranti.
Bruxelles, tra i maggiori Donatori anche nei Balcani, come suo solito evita la questione politica di fondo che la riguarda in prima persona, piuttosto che affrontarla.
Preferisce guardare il fermo-immagine della situazione a Bihać, senza confrontarsi con il fotogramma imbarazzante che lo precede (i migranti arrivano nel Balcani da paesi UE come Grecia, Romania e Bulgaria) oppure che lo segue (la loro stragrande maggioranza punta a rientrare in UE per andare in Germania e Svezia).
Ancora peggiore sulla questione è l’impatto delle azioni intraprese dall’ONU per via dell’IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni www.iom.int ).
Investita della gestione dei flussi migratori clandestini, questa ennesima agenzia dell’universo ONU ha soppiantato nei Balcani l’UNHCR (Alto Commissario ONU per i Rifugiati www.unhcr.org ), giacché per i migranti economici di oggi la Bosnia è scorciatoia di transito a tal punto che quasi nessuno dei clandestini che vi arriva fa richiesta di asilo per restarvi.
E quindi non può essere considerato profugo.
Il problema principale dell’IOM è che, al di là delle ambiziose premesse nel suo nome, si è burocratizzata quantitativamente a gestire i notevoli fondi per l’emergenza di base dei migranti nei campi, senza sforzarsi di trovare soluzioni tecniche e politiche che ne promuovano una eventuale ricollocazione.
Il timore di molti in Bosnia ed Erzegovina è che questi campi nel paese si istituzionalizzino fino a diventare delle vere e proprie soluzioni sub-urbane di lungo periodo sul modello palestinese, giordano e libanese.
Trasformando l’area in un deposito umano di quei migranti che la UE non vuole prendere e che è disposta a pagare l’ONU affinché li gestisca ab limitum in un territorio a sovranità controllata.
Resi scettici dalla stagione degli aiuti vissuta durante la cruenta guerra che hanno sofferto negli anni ‘90, i bosniaci temono di fare gli spettatori passivi davanti alla odierna dinamica migratoria che li riguarda.
Similmente a quanto accade con i paesi di Visegrád – essi non vengono smossi da argomenti morali o solidaristici. E nemmeno scalfiti dalle accuse loro rivolte di ingratitudine “dopo tutti gli aiuti di cui hanno goduto” (tipica formula critica mossa da parte degli storici Stati membri UE e NATO).
A mantenerli fermi nella loro diffidenza ad accogliere oggi questi migranti gestiti da altri vi è una considerazione che hanno introitato a fondo durante la loro passata esperienza bellica.
Ovvero che – quando lo scenario è geo-politico e l’aiuto è di matrice statuale – il Donatore ha sempre interessi maggiori del Beneficiario.
[foto dal profilo Twitter di Caritas Ambrosiana – @caritas_milano]