Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che di Dio. Quasi incardinata in un’eterna bipolarità del mondo, una visione associa il cristianesimo all’ “ordine costituito in Occidente”, essendosi questo identificato con la borghesia e con la libertà
L’insistente “fuoco amico” contro Francesco (e il suo insuccesso, stando ai sondaggi d’opinione sulla popolarità del vescovo di Roma) merita di essere discusso, nel tentativo di capirne i motivi, spesso riassunti nell’accusa di comunismo. Sono anni che il rimprovero è questo: “parla solo dei poveri”… Per la Chiesa non sorprende, anche il Vangelo non si può dire ne parli poco. Allora il problema qual è?
Senza volersi addentrare in tutti i punti della questione emerge evidente la questione del rapporto tra potere spirituale e potere temporale. Per i più il punto relativo al dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che di Dio indica la separazione dei poteri. Questa separazione nel corso del tempo è diventata “congiunzione”, o “appoggio esterno” e oggi vede molti critici di Francesco avere nostalgia dell’intesa che benediceva il “potere costituito” pur non discutendo la separazione dei poteri. Quasi incardinata in un’eterna bipolarità del mondo, questa visione associa il cristianesimo all’ “ordine costituito in Occidente”, essendosi questo identificato con la borghesia e con la libertà. Ci sono altre visioni di quel “dare a Cesare e dare a Dio”. Per Pier Paolo Pasolini quella “e” non è una congiunzione, ma una disgiunzione: Dio e Cesare per lui sono “comunque” inconciliabili. Un’altra visione, variamente seguita nel mondo ortodosso, ha indicato una sinfonia tra poteri: nobile, ma alla prova dei fatti l’essere “sinfonici”, cioè concordi, assonanti, ha finito facilmente col fare del potere spirituale una ancella del potere temporale, come dimostra parte dell’esperienza concreta nel mondo ortodosso, soprattutto in Russia. Dunque la scelta della Chiesa di Francesco sembra, soprattutto oggi, difendere una vera separazione tra Stato e Chiesa, prima di ogni altra considerazione. Ma occorre guardare nell’oggi per vedere di più.
Oggi infatti il problema della borghesia esiste, perché esiste concreto il rischio di una sparizione della borghesia, che nel frattempo senza saperlo si è trasformata. Può accadere di sparire, visto che è accaduto al proletariato. Il fatto è culturale, infatti i poveri esistono ancora ma non sono “il proletariato”, non sono la “classe operaia”, i poveri oggi sono tante realtà abbandonate, disconnesse, diverse. Altrettanto può dirsi per la borghesia: non è che non esistono più i ceti medi, ma si può essere ceti medi senza rappresentare un sapere. Un esempio: Fedez fa cultura, e utili, più dei direttori di giornali prestigiosi. Oggi si ascolta più Fedez che il proprio giornale.
La borghesia cambia, ma appare un ceto impaurito che va sparendo perché dimentichiamo che non è opposta al proletariato, ma ceto intermedio. Intermedio tra chi? Oggi tra i poveri e la nuova nobiltà, in gran parte fatta dalla nuova rendita, quella che fa sì che l’1 % della popolazione detenga più della metà della ricchezza mondiale. Il dato conferma una tendenza e lo ha confermato nel 2017 Credit Suisse: una sua ricerca indica che all’inizio del millennio l’1% della popolazione mondiale deteneva il 45,5% della ricchezza mondiale. Nel 2017 la stessa percentuale di persone ne deteneva il 50,1%. La questione della borghesia, che non sta in questo 1% globale, pone quindi il problema di chi insidi la borghesia: si deve difendere dal vampirismo del nuovo capitalismo o dall’assedio dei poveri, sempre più numerosi?
La borghesia, che per Marx ha avuto un ruolo “sommamente rivoluzionario”, è stata comunque protagonista di un allargamento, non solo archiviando l’ordine feudale ma anche tramite l’affermazione del professionista, che aveva il pieno controllo dei suoi mezzi di produzione. Se il marxismo ha visto in questo il trionfo del nudo interesse, del pagamento in contanti, è difficilmente negabile che ci sia stata anche l’affermazione di saperi, di impresa, di mobilità sociale. Ora? L’impressione è che l’odierna borghesia insegua la stasi, non la mobilità sociale, schiacciata da quell’1% teme di finire travolta dall’assalto dei poveri: sporchi, ignoranti, ma soprattutto tanti.
Le famiglie chiuse così rischiano di essere quelle borghesi, come vivessero in un assedio: da una parte i poveri, dall’altra la nuova élite, i terminali sociali sempre più economicamente distanti. Così la borghesia si radicalizza, non è più luogo di saperi, di trasformazione e crescita sociale, adesso ha paura e sembra dire alle fedi: noi siamo i bramini, dovete proteggerci, tenendo a bada gli intoccabili. Questa tentazione fa tanta tenerezza, perché nessuna religione può riorganizzarsi intorno al vecchio vessillo “Dio, patria, famiglia” senza un blocco di potere, e il potere oggi è consumista. Nell’ordine consumista non c’è posto per Dio se non consuma. Così ci si illude che il nazionalismo possa schiacciare i poveri sull’idea di “difesa comune” da poveri ancor più poveri, ma l’esito produrrebbe quel che ha prodotto proprio questo processo nei paesi islamici: incapaci di costruire una borghesia, ma solo un club di privilegiati, hanno tentato di tenere a bada i poveri facendo della fede un’ideologia anti-occidentale: il risultato è stato che qualcuno in nome dei poveri ha fatto della fede un fenomeno eversivo.
La rabbia nei confronti di Francesco sembra così la rabbia nei confronti del medico che ci dice che possiamo guarire, ma per farlo dobbiamo curarci: l’amicizia sociale salva, se non per nobiltà d’animo almeno per calcolo se non si vuole finire travolti. Se l’amicizia chiede, infatti, è vero anche che l’amicizia sociale sa pretendere. Così un pensiero che non vuole sentire vede il suo piccolo villino di Ostia lido sempre più lontano dal trasformarsi nel villone di Portofino e accusa il papa di essere comunista. Non accetta di vedere il mondo nuovo, e si radicalizza, si barrica. La Chiesa in uscita di Francesco non ci illude che tutti si possa avere un villino a Ostia lido: richiede, è vero, come il celebre Matteo 25 (dar da bere agli assetati…) , ma rende evidente anche lo scandalo dell’1%. La pandemia in questo modo diviene l’occasione di includere tutti, di ripensare i confini, i limiti, l’idea di comunità. E qui può ritrovare la sua anima la borghesia di oggi, nella progettazione non solo per sé, ma per tutti. Il messaggio di Francesco infatti supera il nuovo bipolarismo, quello tra universalismo consumista globalista e localismo consumista populista, restituendo proprio ai ceti medi la possibilità di immaginare un’amicizia sociale poliedrica, cioè rispettosa delle diversità. Questa sfida offre alla borghesia la possibilità di ritornare a sognare per tutta la società, quel che l’1% iper abbiente non vuole fare e quel che i poveri non possono fare per crescente emarginazione sociale. La borghesia invece ha il compito di immaginare nuove possibilità, pena un fallimento etico che sarebbe anche una rinuncia ad esistere.
La possibilità di una società capace di reinventarsi oltre i confini del consumismo è un dovere esistenziale per la borghesia e il reddito universale di base prospettato da Francesco per tutti potrebbe essere l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi per ripartire. Se la pandemia non vedrà una progettualità post-consumista avremo un localismo globale che travolgerà ogni rimasuglio di società aperta. Per questo i borghesi di oggi farebbero bene ad andare a dare un’occhiata a cosa accada nei santuari, in un giorno normale. È lì, non in parrocchia né al bar della piazza, che potrebbero capire cosa è il “popolo”: nei santuari il povero e l’aristocratico si uniscono nella stessa preghiera, nella stessa supplica, con le stesse modalità. Riconnettendo di popolo in popolo radici ed sogni la borghesia può evitarci di finire in un mondo senza ceti medi.