L’economista dell’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica: niente panico ma il tempo stringe e il piano va approvato il prima possibile. Mi preoccupa l’assenza di governance ma più di tutto la mancanza di progetti reali. Impossibile immaginare una ripresa dell’economia senza prima abbattere il virus. L’assalto al Congresso? Una lezione per l’Europa: da oggi in poi dovrà farcela con le sue gambe
Tra poche ore il Recovery Plan dovrebbe finire in cassaforte, pronto per essere spedito a Bruxelles per ottenere le prime sostanziose quote di Recovery Fund. Lo vuole il premier Giuseppe Conte e lo vuole il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che nei fatti ha congelato, ma forse non disinnescato, la crisi di governo: prima il piano per i 209 miliardi all’Italia (più una ventina di fondi per il Sud), poi si vedrà.
Domani sera un Cdm che potrebbe essere decisivo per le sorti dell’esecutivo e per assicurarsi risorse (prestiti o sussidi, poco importa) di cui l’Italia non può fare a meno. Ma, beghe politiche a parte, il governo a che punto è sul Recovery Plan? Formiche.net ne ha parlato con Giampaolo Galli, economista di lungo corso dal passato in Confindustria, oggi in forza all’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli.
Galli, l’ultima bozza del Recovery Plan sembra essere rafforzata su alcuni settori, a cominciare dalla sanità. Adesso, la portata dovrebbe essere intorno ai 220 miliardi. La reputa sufficiente?
Penso sia certamente sufficiente. Anzi il rischio è di fare indigestione di risorse, nel senso che non è ovvio che riusciremo a spenderle nei tempi previsti dal regolamento europeo: 2023 per gli impegni e 2026 per le effettive erogazioni. Sono tempi da centometrista se confrontati con i normali tempi delle amministrazioni pubbliche in Italia.
Il problema è che tra tre mesi e mezzo l’Italia dovrà presentare all’Europa il suo piano d’azione per le risorse del Recovery Fund. Ma ad oggi manca ancora la testa di tutta questa operazione, ovvero una governance. Siamo in ritardo o non è il caso di farsi prendere dal panico?
Niente panico, però ora bisogna fare in fretta. Entro fine aprile, il piano deve essere presentato alla Commissione. C’è ancora poca chiarezza sulla governance e soprattutto mancano ancora i progetti. Temo che i problemi più seri li si incontreranno quando si renderanno noti i singoli progetti.
Pandemia o no, il grande problema dei prossimi anni sarà il debito. Oggi l’Italia gode di buona fiducia sui mercati ma non sarà sempre così. E c’è chi, in Germania, suggerisce di finanziare il pagamento delle scadenze dei titoli con l’emissione di nuovi titoli, creando una sorta di debito perenne ma evitando che i giovani paghino un prezzo troppo alto in futuro. Lei come la vede?
Già oggi quasi tutti gli Stati, e anche l’Italia, finanziano i titoli in scadenza emettendo nuovi titoli: è auspicabile che ciò avvenga anche per l’Unione europea, ma al momento non è previsto. Quanto all’Italia, i rischi ci sono e sono evidenti. Dovremo riusciremo a realizzare il piano di rientro previsto nella Nadef: ritorno del rapporto debito/Pil al livello del 2019 in dieci anni. Questo comporta, come è scritto nel piano, che il deficit torni al 3% attorno al 2023 e si azzeri gradualmente negli anni successivi.
Non proprio una passeggiata per un Paese che non cresce come dovrebbe da decenni, non crede?
Il compito sarà meno arduo se l’Italia tornerà alla crescita dopo un quarto di secolo di stagnazione: anche per questo è fondamentale investire bene le risorse europee. Per questo ora la priorità assoluta è quella di curare le ferite inflitte dal Covid e di fare gli investimenti necessari per la ripartenza. È cruciale però che questi investimenti abbiano una visione lunga e siano accompagnati dalle riforme che sono indispensabili per rimettere l’Italia lungo un sentiero di crescita.
Galli ormai è evidente come un nuovo lockdown sia escluso. Ma non siamo usciti dall’emergenza, anzi, le restrizioni proseguiranno. Il problema è che la nostra economia boccheggia. E allora, quale il male minore?
Si tratta di scelte straordinariamente difficili. Ma una cosa è chiara: non può esserci rilancio dell’economia se non si sconfigge il virus. Ce lo conferma anche l’esperienza di Paesi, come il Regno Unito e la Svezia, che inizialmente avevano cercato di non imporre restrizioni, puntando sull’immunità di gregge: anche questi paesi ora hanno dovuto ammettere che le restrizioni sono necessarie.
Non le saranno sfuggite le immagini-choc arrivate dagli Usa, al termine di una presidenza tra le più discusse della recente storia americana. Quale la lezione per l’Europa e per gli stessi Usa?
Intanto vorrei dire che si tratta di un shock enorme: gli Stati Uniti hanno perso il ruolo di leader del mondo libero e di esempio da additare ai Paesi emergenti. La speranza è che la nuova presidenza Biden riesca a pacificare l’America e ripristinarne il ruolo internazionale. Ma è un compito molto difficile perché Trump ha comunque un gran numero di seguaci che sono fortemente radicalizzati. La lezione per l’Europa è quella che indicò Angela Merkel qualche tempo fa: l’Europa deve imparare a fare da sé.