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Europa (ancora) afona su Hong Kong. Il j’accuse di Laura Harth

È ormai accertato che la stretta a Hong Kong, come nella Cina continentale, non si fermerà prima che siano silenziati tutti. La questione principale quindi non riguarda più quali azioni compirà nel futuro prossimo, ma come intende reagire l’Unione europea

Nella mattinata del 6 gennaio 2021, 53 persone sono state arrestate a Hong Kong ai sensi della Legge sulla Sicurezza nazionale, tra cui gli organizzatori e i candidati alle primarie democratiche dello scorso luglio, nei quali oltre 600mila hanno espresso un loro voto per scegliere i candidati pro-democrazie per le elezioni del Consiglio legislativo, successivamente rinviate di un anno.

Una squadra di 1.000 agenti per la sicurezza nazionale e agenti di polizia per arrestare 53 persone e perquisire 77 luoghi, tra cui anche la casa di Joshua Wong, uffici e quattro società mediatiche. Sotto la direzione della polizia di Hong Kong sono anche stati congelati 1.6 milioni di HKD legati ai 53 individui.

Sei degli organizzatori delle primarie dello scorso anno sono sotto accusa di “organizzazioni di sovversione” e 47 candidati di “partecipazione alla sovversione” ai sensi della Legge sulla Sicurezza nazionale. Tra gli arrestati anche un cittadino americano, l’avvocato John Clancey.

John Lee, ministro per la Sicurezza di Hong Kong ha dichiarato che gli arrestati sono sotto accusa di aver tentato di paralizzare il governo attraverso la loro volontà di ottenere la maggioranza dei seggi nel Consiglio legislativo, per forzare un cambio di guida a capo dell’esecutivo.

Da queste accuse è del tutto evidente che il governo di Pechino e l’esecutivo di Hong Kong sono fermamente decisi di perseverare nella persecuzione totalitaria di tutte le voci di opposizione al loro regime e di imporre il modello “democratico” del Partito comunista cinese, il quale ha pubblicato le nuove linee guida per la democrazia interna secondo le quali l’espressione pubblica di qualsiasi parere o opinione contraria alla guida centrale di Xi Jinping è vietata.

Non è un caso che l’azione si sia compiuta proprio in questo giorno, contando sulla distrazione mondiale per via delle elezioni in Georgia negli Stati Uniti, come fu già il caso per la sottoscrizione dell’Accordo di principio sugli Investimenti con l’Unione europea sotto il periodo natalizio.

È ormai accertato che la stretta a Hong Kong, come nella Cina continentale, non si fermerà prima che siano silenziati tutti. La questione principale quindi non riguarda più quali azioni compirà nel futuro prossimo, ma come intende reagire l’Unione europea che si è affrettata, sotto la guida della Cancelliera Merkel, a concludere un accordo che, sebbene supererebbe meritevolmente i 26 accordi bilaterali, non solo promette ben poco in termini tecnici, ma che ha mandato un segnale chiarissimo a Pechino: per Bruxelles e per Berlino la continua repressione è accettabile.

Accettabile quanto accade di giorno in giorno a Hong Kong. Accettabili i campi di internamento e il lavoro forzato nello Xinjiang e in Tibet. Accettabile il fermo ulteriore alle indagini internazionali “indipendenti” sulla pandemia e il silenziamento di tutte le voci di informazione relativi all’interno del Paese. Accettabili le sanzioni economiche unilaterali contro l’Australia e le minacce continue contro singoli Stati membri per aver alzato la voce su determinate questioni in difesa dei diritti umani e lo Stato di Diritto. Assistiamo alla ripetizione dell’errore storico dell’appeasement che proprio questo continente del “mai più” dovrebbe saper riconoscere più di chiunque.

Assisteremo anche oggi alle consuete dichiarazioni di “forte preoccupazione” e “monitoreremo” dai vari capitali europei, dichiarazioni che vanno avanti da anni. Mancherà sicuramente ancora una volta il coraggio minimo di proporre delle azioni concrete, in particolare sotto il nuovo meccanismo dell’EU Global Human Rights Sanctions Mechanism, il Magnitsky Act europeo approvato a dicembre. Il tutto in un clima in cui la democrazia interna all’Ue sul tema è stata cancellata, sia negli Stati membri che al livello europeo come abbiamo potuto verificare con il modo e la tempistica vergognosa in cui sono stati conclusi i negoziati di principio sul Cai.

Ha riassunto perfettamente il deputato europeo Glucksman durante il dibattito plenario del 17 dicembre quando ha dichiarato a voce alta contro la Commissione europea: “J’accuse!”.

Inutile che la Commissione europea, chiamata a rispondere per quel che non si può che definire come vigliaccheria da parte dei principali architetti Merkel e Macron, ribadisce che un accordo commerciale è soltanto una parte della sua politica vis-à-vis la Cina se gli altri strumenti sono off-limits. Quando le sanzioni non si possono neanche proporre. Quando gli accordi con la Cina vengono negoziati sotto stretto silenzio e i testi non saranno disponibili per il dibattito parlamentare e pubblico per i primi tempi prevedibili. Quando i Parlamenti vengono ignorati. Quando non vi è spazio per domande scomode.

Come abbiamo avvertito da tempo: il famoso “metodo cinese” si è pienamente instillato non solo per quanto riguarda la gestione della pandemia. La capitolazione della Repubblica popolare europea sembra ormai compiuta. Speriamo che in qualche capitale si celi ancora una voce coraggiosa pronta ad alzare di nuovo la bandiera dei principi su cui si fondava l’Unione europea.

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