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Agenda Laschet, fra Biden, Ue e Verdi. Parla Mario Mauro

Mario Mauro, ex ministro della Difesa, spiega che i legami tra Cdu e dem Usa potranno rilanciare l’agenda transatlantica e perché Laschet guarda ai Verdi e dice no all’AfD. Un messaggio anche a Salvini e Meloni…

Mario Mauro conosce bene Armin Laschet. L’ex ministro della Difesa ed ex vicepresidente del Parlamento europeo ha conosciuto nei palazzi di Bruxelles e Strasburgo il nuovo presidente dell’Unione cristiano-democratica di Germania, che tra 1999 e 2005 è stato europarlamentare. E ha avuto occasione di sentirlo anche durante i congressi del Partito popolare europeo.

Come ha fatto ieri parlando con Formiche.net da Nino Galetti, direttore della Rappresentanza in Italia e Malta della Fondazione Konrad Adenauer, anche l’ex ministro Mauro inizia a raccontare il nuovo leader della Cdu partendo dalle note biografiche. Lui rappresenta “una curiosa combinazione: è cattolico, per di più vallone quindi di cultura francese, e a tratti conservatori; ma si è anche schierato al fianco della cancelliera Angela Merkel, che aveva di fatto sfidato il suo partito nel 2015 sulla crisi dei migranti”. È questo mix che gli ha permesso di porsi come il candidato centrista della Cdu e battere Friedrich Merz, l’uomo dell’ala destra.

Uno dei punti fermi di Laschet, spiega Mauro ricordando le sue posizioni nel dibattito interno al Partito popolare europeo, è “la durezza sul cosiddetto cordone sanitario, una sorta di arco costituzionale nel Parlamento europeo per impedire alle estreme destre europee di stare in partita”.

Una delle sfide per il nuovo leader della Cdu sarà dunque il ruolo del premier ungherese Viktor Orbán, a cui ha fatto riferimento implicito anche il leader del Ppe, Donald Tusk, intervenendo al congresso dell’Unione: “La discussione è ormai solidamente instradata verso una presa di posizione finale, al momento solo rinviata perché i meccanismi del Ppe obbligano al voto in presenza”, continua l’ex ministro sottolineando due elementi. Il primo: “il problema per il Ppe è che l’alternativa a Orbán non è a sinistra, bensì a destra e ben peggiore di lui, il movimento Jobbik”. Il secondo: “La discussione incrocia le strade italiane. Se Orbán esce dal Ppe non vedo dove altro potrebbe andare se non nell’Ecr presieduto da Giorgia Meloni che avrà il ruolo di raccogliere chi si riconosce in un ideale europeo, pur non in quello dei federalisti popolari”.

La conversazione con Mauro non può che virare, dunque, sulla Lega di Matteo Salvini, oggi in identità e democrazia: “Mi sembra che anche dentro la Lega si siano compresi i problemi della convivenza con Marine Le Pen. Ma comunque non è detto che in casa Ppe ci sia entusiasmo per accogliere” i leghisti, continua l’ex ministro indicando le elezioni tedesche di settembre come orizzonte cui guardare per ipotizzare un nuovo quadro europeo. “Con l’esclusione dell’AfD, Laschet ha lasciato intendere che l’approdo finale dei tedeschi sarà un’alleanza con i Verdi”, spiega Mauro ricordando anche che “sul piano economico ci sono forti convergenze tra i popolari e di un colosso industriale come Bmw, centrale in Baviera (e quindi per la Csu), che più sta sempre più guardando all’elettrico”.

Una certezza però, Mauro sembra averla. Laschet “troverà facilmente l’intesa con Joe Biden, visti anche i forti legami tra il Partito democratico statunitense e la Cdu tedesca. Null’altro mi aspetto senza un rafforzarsi della sinergia tra la Cdu e l’amministrazione Biden, che potrà far sì che tedeschi e americani riaprano cantieri come il nucleare iraniano e il confronto con la Cina”. E a giudicare dai documenti presentati da Consiglio europeo e Commissione europea a inizio dicembre per un’agenda transatlantica, l’ex ministro non esclude che Berlino e Washington possano accelerare nella riapertura del “vaso di Pandora degli accordi commerciali transatlantici in linea con l’impostazione di contrapporre alle mosse cinese nell’Indo-Pacifico un mercato unico americano ed europeo”. Senza dimenticare l’importanza di una certa autonomia strategica europea che soddisfi le richieste statunitensi sul fronte militari, a partire dall’impegno del 2% per i Paesi Nato.



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