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Gli scontri di Capitol Hill (non) visti da Mosca. Scrive Pellicciari

Putin non può permettersi una stagione rivoluzionaria: è una delle ragioni per cui Mosca non ha dato ampio spazio agli scontri di Capitol Hill. L’analisi di Igor Pellicciari (Università di Urbino, Luiss Guido Carli)

I clamorosi fatti di Washington impongono a ciascun analista di cimentarsi in un commento. E lo pongono davanti al dubbio. Uscire allo scoperto alla ricerca di un primato cronometrico ma con evidenti azzardi; oppure attendere con cautela e cadere nel calderone del già scritto da osservatori più autorevoli sul tema — per non dire degli altri: pure Umberto Tozzi in questi giorni ha detto la sua.

Raggiungere originalità in seconda battuta non è facile; a meno che non ci si rifugi in una prospettiva particolare per poi tornare a considerazioni generali come una trota che risale il fiume. Ha dunque un senso soffermarsi su come la Russia abbia commentato l’incredibile “presa del Campidoglio”. Se le reazioni cinesi subito hanno registrato sarcasmo con durissimi dileggi sul modello democratico statunitense, da Mosca si sono levate voci sì critiche ma nel complesso più simili nei toni a quelle annoverate in Occidente. I media russi hanno descritto nel dettaglio quanto stava avvenendo sul campo a Washington aggiungendo uno storytelling che si è incanalato sui facili canali già tracciati dalle decine di messaggi lanciati dallo stesso Donald Trump sulle rigged elections.

Da tempo i ruoli si sono invertiti, con i media russi nell’inconsueto ruolo paternalista di sottolineare tutte le contraddizioni del sistema americano e offrire alla propria opinione pubblica un’ immagine negativa degli Stati Uniti. Questa semplice cronaca descrittiva dei fatti, integrata con pochi commenti, ha colmato sui media russi lo spazio liberatosi con la fine delle difese domestiche dalle accuse del Russiagate o di fomentare disordini sociali negli Stati Uniti. Uscita dallo scomodo ruolo di principale accusata, Mosca nonsi è fatta scappare l’occasione di criticare gli Stati Uniti; senza tuttavia dare l’impressione di volere infierire troppo sul rivale di sempre.

È una linea editoriale sposata da media russi in lingua inglese come Russia Today che, nato per promuovere un mainstream di Mosca opposto a quello occidentale, è finito per reclutare giornalisti e commentatori stranieri, in larga parte estranei al mondo russo. Come spesso accade, la loro posizione ha anticipato quella istituzionale che pure ha tenuto un basso profilo, in parte perché gli avvenimenti di Washington sono caduti a Mosca nella serata mistica del 6 gennaio (la vigilia di Natale per il calendario cristiano ortodosso) che male si concilia con la violenza delle immagini in arrivo dagli Stati Uniti. Trattandosi di vicende esterne, il primo commento è stato affidato al ministero degli Affari Esteri ma non per bocca del carismatico Sergey Lavrov, che pure negli States ha vissuto a lungo e probabilmente avrebbe molto da dire a riguardo. Se il suo silenzio dice già molto, ugualmente esplicativo è il comunicato a firma di una figura di secondo piano come Maria Zakharova, portavoce del ministero, in genere considerata più vicina al mondo giornalistico che diplomatico.

Il testo è una sintesi perfetta della cautela russa. Si premette che gli avvenimenti di Washington sono questioni interne agli Stati Uniti (inciso diplomatico che fa il verso polemico sulla interferenza americana in altri scenari del passato) e si fa notare che il funzionamento della democrazia americana è rallentato dal persistere di alcune regole anacronistiche, retaggio del passato. Nulla più viene aggiunto. Il che è strano, dati i toni polemici in genere usati dalla Zakharova(su tutti si vedano i suoi recenti scontri sui social media con l’oppositore Alexei Navalny).

Tra i numerosi motivi che possono spiegare questa cautela russa ne spicca in particolare uno sul piano internazionale e uno sul piano interno. Il primo è riferito ai rapporti Russia-Stati Uniti di questa fase che, sempre duri nei fatti (su numerose questioni Donald Trump ha preso decisioni contrarie al Cremlino) hanno però tolto Mosca da quella posizione di principale antagonista di Washington ricoperta durante l’amministrazione di Barack Obama e oggi occupata stabilmente da Pechino. Il Cremlino è attento a non entrare sul terreno scivoloso dello scontro diretto con Trump (che a sua volta ha interrotto la demonizzazione personalistica della figura di Vladimir Putin) ma è convinta che l’ amministrazione di Joe Biden sarà più facile da gestire (non in quanto filo-russa, tutt’altro, ma perché ispirata a logiche e obiettivi politici che Mosca conosce meglio e può prevedere). Vista da questa prospettiva, la cautela nel commentare i fatti di Washington risponde alla stessa logica diplomatica del ritardo nel riconoscere la vittoria di Biden, arrivato solo a sua certificazione avvenuta.

Il motivo di politica interna per la prudenza di Mosca è più profondo e ci riporta alle ambizioni (e paure) che scorrono ancora nel suo sistema politico. A differenza della Cina, la Russia ha formali ambizioni costituzionali liberal-democratiche e, anche se lo ammette a denti stretti, considera l’esperienza occidentale come un modello teorico da seguire, anche quando lo rende oggetto di forti critiche politiche.

Dal crollo dell’Unione sovietica a oggi, la Russia ha visto un competitore nella politica estera americana e non nel suo framework di riferimento istituzionale. Da democrazia in transizione qual è, complice un complesso di inferiorità post-sovietico, Mosca in realtà ha subìto il fascino della tradizione costituzionale americana a tal punto occasionalmente di emularla, come nel rafforzamento di un presidente commander-in-chief perno del Paese. Davanti all’attacco di una minoranza organizzata al Campidoglio, il Cremlino non può oggi non rivivere con un brivido episodi del suo stesso passato quando dei silver bullet hanno fatto crollare l’intera struttura istituzionale del paese. E non temere che quelle stagioni, per quanto passate, si possano ripresentare.

Del resto, nell’annunciare la nuova Costituzione del 2020, Putin stesso alla Duma ha rimarcato che la Russia non potrebbe permettersi di rivivere una nuova stagione rivoluzionaria. In definitiva, se Washington piange, Mosca non ride.



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