Il presidente Conte dice che i partiti sono “vecchia politica” ma la sua politica è ancora più vecchia e ricorda Giolitti, maestro di manovre di palazzo. I democratici decidano ora se siamo nati riformisti per finire contiani. Il corsivo di Enrico Borghi, deputato del Partito democratico
Quello che sta accadendo attorno alla vicenda politica italiana, al netto dei vaticini sull’apertura formale di una crisi di governo ormai nei fatti, pone una riflessione di sistema. Che dovrebbe indurre a qualche comportamento consequenziale.
Come risposta a un partito-gruppo parlamentare che ha annunciato il ritiro della propria delegazione ministeriale, il Primo Ministro ha promosso – attraverso alcuni esponenti parlamentari – la costituzione di una base parlamentare diversa, che supportasse l’esecutivo senza modificarlo.
Non mi interessa, qui, un giudizio in senso stretto sull’operazione. Né sono utili riflessioni che sconfinano nel moralismo, che non hanno nulla di politico.
È utile alla riflessione sistemica, invece, porre l’accento sull’incredibile similitudine che il sistema politico italiano sta avendo con quello di fine Ottocento.
Un trentennio di costante, e pervasiva, demolizione dei partiti e delle forme della rappresentanza, ci ha consegnato un panorama nel quale il Parlamento non ha più quel luogo naturale dello scontro e della mediazione politica che era rappresentato dalle forze politiche. Le quali rappresentavano un elemento di trascendenza rispetto alle istituzioni, e le “preservavano” da uno scadimento sia in termini di qualità della rappresentanza che di passaggio di casacca.
I “cambi di maglia” nella Prima Repubblica si contano sulle dita delle mani, ed erano frutto di travagli interiori, di scontri politici radicali (si pensi alla vicenda dell’invasione sovietica di Budapest del ‘56) o di letture diverse della società e della Storia.
Uccisi i partiti (che hanno dato un buon contributo al loro suicidio, in alcuni casi), esaltata la retorica dell’uno-vale-uno, sancito il principio che la rete avrebbe sostituito le aule parlamentari, si pensava che la rappresentanza potesse diventare più “democratica”.
Invece è ritornata ad essere quella che pre-esisteva ai partiti popolari e alle organizzazioni di massa. Sgonfiata la rappresentanza, evaporata la massa e recisi i legami tra grandi questioni sociali e istituzioni, il Parlamento sta tornando ad essere come il quadro del regime liberale post-unitario: gruppi parlamentari che si fanno e si disfano attorno ai “capi”, con alleanze che si montano e si smontano non in funzione di una visione del mondo o un programma di governo, ma per il perseguimento del potere.
Le cronache narrano che Giovanni Giolitti, a cavallo tra Ottocento e Novecento, fu maestro nel tipo di “manovre” che vediamo oggi punteggiare le cronache politiche, e anche per questo si garantì diversi passaggi al Viminale.
Occhieggiando di quando in quando un poco sulla destra e un poco sulla sinistra, con parlamentari che non rispondevano ad un programma politico ma esclusivamente alla propria limitatissima base elettorale (da qui lo sfondamento delle casse pubbliche per concessioni assistenzialistiche o particolaristiche prive di un respiro generale ma utili solo al mantenimento del consenso parlamentare), Giolitti cavalcava il sentimento di auto-conservazione del parlamentare per assicurarsi il mandato governativo.
I tre fatti politici di questa legislatura vanno in questa direzione. Essi sono la nascita (per scissione) di un partito come IV che esiste di fatto solo nelle aule parlamentari, privo di autentico radicamento sociale come hanno dimostrato le recenti elezioni regionali.
Ancora, la dilatazione del gruppo misto fino a renderlo di dimensioni ragguardevoli. E infine, il dibattito attorno al “Partito di Conte”, che si vorrebbe nascesse da un coacervo di parlamentari raggrumati uniti a una dimensione della immarcescibile burocrazia romana che transiterrebbe verso le latitudini del presidente del Consiglio per assicurarsi l’immutabilità di cui gode da sempre.
Tutta roba “top down”, dall’alto verso il basso, priva di un radicamento sociale e territoriale, frutto della bolla mediatica e della dinamica politica autoreferenziale.
Criticando nelle scorse settimane una serie di prese di posizione dei partiti che lo sostenevano, Conte li liquidò come “vecchia politica”.
Nell’ansia di un nuovismo di maniera, il presidente del Consiglio non si è accorto che mentre liquidava la “vecchia politica” (salvo indulgere in uno scimmiottamento dei presidenti del Consiglio di marca democristiana, ma questo è un altro discorso che forse riprenderemo), stava mettendo in campo la riedizione di una “vecchissima politica”. Ottocentesca, per l’appunto. Notabilare e a base parlamentare, anzichè popolare e territoriale.
È naturalmente libero di farlo. Resta il problema di cosa faremo noi. Perché accedere, ed accettare, all’idea della nascita di un “Partito di Conte” in questi termini, e in queste modalità, significa di fatto archiviare l’idea portante del Partito Democratico, nato per fare la sintesi delle esperienze del riformismo italiano dentro un quadro di democrazia dell’alternanza.
È un tema tutto politico, che in un momento di “crisi” (ovvero di giudizio, di valutazione per riprendere l’etimologia della parola) non possiamo eludere.