L’embargo militare si è dimostrato sempre molto debole, a parte rare eccezioni. Può avere efficacia se adottato a livello internazionale, ma non sicuramente a livello nazionale. Inoltre, se limitato a prodotti facilmente reperibili sul mercato è completamente inutile, e anche un po’ ipocrita. L’analisi dell’esperto Michele Nones
In ogni Paese democratico, responsabile e serio, l’esportazione di equipaggiamenti militari viene considerata uno strumento della politica estera ed è quindi sottoposta al controllo dello Stato.
Di conseguenza, al vertice del processo decisionale vi è un ristretto gruppo di ministri e coinvolge lo stesso capo del Governo (Regno Unito, Germania) o dello Stato (Francia), perché determinate scelte coinvolgono l’intero quadro dei rapporti con il Paese interessato e richiedono, quindi, una valutazione e una decisione che consideri tutti gli aspetti politici, diplomatici, economici, finanziari, industriali, culturali, ecc. Per questo non sono lasciate nelle mani della sola amministrazione e impegnano direttamente l’Autorità politica con procedure opportunamente definite e strutturate.
Le decisioni più importanti vengono prese con la consapevolezza che sono destinate a segnare per lungo tempo i rapporti bilaterali con quel Paese e hanno un impatto sulla percezione che hanno anche gli altri Paesi, in particolare quelli della regione interessata. Inoltre, l’esclusione di un Paese dalle destinazioni permesse per le esportazioni, a meno che non si siano verificati imprevedibili cambiamenti dello scenario, avviene al termine di una crescente pressione con interventi ai vari livelli e nelle forme più adatte al fine di ottenere il risultato voluto.
Di più: la revoca di un’autorizzazione all’esportazione precedentemente concessa avviene solo in casi eccezionali perché è comunque un “vulnus” nell’affidabilità internazionale del Paese che la decide. Vale ancora il detto latino “Pacta sunt servanda”, soprattutto nella difesa e sicurezza, perché nessun Paese affida la propria a un altro se le sue decisioni sembrano essere prese senza seguire una procedura chiara, trasparente, motivata, priva di connotazioni ideologiche o elettorali. Questa scelta dovrebbe, quindi, essere coerente con quelle precedentemente assunte e tempestiva rispetto agli avvenimenti che si ritiene possano giustificarla.
In ogni Paese democratico, responsabile e serio, quando si sottoscrive con un altro Paese un accordo di cooperazione nel campo della difesa, si assume un impegno che non può e non deve essere limitato all’interesse del momento, nemmeno se si tratta di un’importante commessa. Ci si impegna solennemente a collaborare per garantirne le capacità di difesa fornendogli i mezzi necessari, l’addestramento del personale (anche con possibili esercitazioni congiunte) e il supporto logistico. Se si qualifica un Paese come amico e partner, resta tale anche quando sbaglia ed eventuali divergenze vanno affrontate con spirito collaborativo, non punitivo.
Se un Paese fa parte dell’Unione europea, la quale punta a una progressiva integrazione dei suoi Stati membri al fine di garantire la sopravvivenza, e quindi l’autonomia, in uno scenario internazionale dominato da grandi potenze globali, la sua politica internazionale deve sempre puntare al massimo coordinamento possibile con quella dei partner, soprattutto i più importanti. Questo renderebbe più efficace ogni intervento ed eviterebbe pericolose differenziazioni col rischio di favorire posizioni concorrenziali. Il primo passo, e non l’ultimo, di ogni iniziativa dovrebbe, quindi, essere sempre quello di cercare di costruire una posizione condivisa, per lo meno con i partner più importanti, invece che marciare autonomamente, cercando di arrivare “primi” in una gara dove alla fine tutti rischiano di perdere.
Gli Stati membri dell’Unione europea devono dunque considerare attentamente eventuali embarghi unilaterali, perché rappresentano potenziali ostacoli alla collaborazione europea. Dando per scontato che nessun grande sistema di difesa trova sbocco sufficiente sul mercato continentale, le esportazioni restano indispensabili. Se non si abbandona il principio che ogni Paese partecipante ad un nuovo programma può esercitare il diritto di veto verso ogni esportazione, il rischio è che venga escluso per non rischiare di minare la sostenibilità di un nuovo programma. Embarghi o revoche di autorizzazioni unilaterali minano, quindi, anche l’affidabilità europea, oltre che quella internazionale.
Inoltre, lo strumento dell’embargo militare si è dimostrato sempre molto debole, a parte rarissime eccezioni. Può avere una certa efficacia se adottato a livello internazionale, ma non sicuramente a livello nazionale, tanto meno se da parte di una media potenza. Un embargo limitato a prodotti facilmente reperibili sul mercato internazionale è completamente inutile e anche un po’ ipocrita perché è come vendere una pistola senza le pallottole: anche un ingenuo capisce che l’interessato le troverà facilmente e potrà usarla senza limitazioni.
Prima di autorizzare determinate produzioni militari che hanno un elevato livello di “sensibilità” politica, ma non sono considerate strategiche, le Autorità ne devono valutare attentamente l’opportunità. Ma se le si autorizza, il Paese deve poi farsi carico delle relative implicazioni. Le decisioni in materia di politica estera dovrebbero essere comunicate nelle sedi e nelle forme opportune, in primo luogo al governo e al Parlamento, anche a prescindere dalla mancanza di una formale procedura decisionale.
Ma, come detto, tutto questo vale per un Paese responsabile e serio. Ieri, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha comunicato sui social la decisione del governo di revocare le autorizzazioni all’esportazione di missili e bombe d’aereo all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Purtroppo, della decisione non si trova traccia nei lunghissimi e variegati comunicati delle numerose riunioni del Consiglio dei ministri, né sul sito del Maeci, né nelle comunicazioni alle Commissioni parlamentari o al Copasir (che, forse, tenendo conto della delicatezza del tema, poteva essere coinvolto). Comunque, dal 26 gennaio il governo risulta dimissionario, invitato dal presidente della Repubblica “a rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti”.
Appena tre anni dopo il varo della prima legge italiana sul controllo delle esportazioni (la 185 del 1990), è stato cancellato il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd), presieduto dal presidente del Consiglio. Così, ogni decisione è rimasta nelle mani del solo ministro degli Esteri. In quella che i pacifisti decantano come la legge più avanzata del mondo è stato azzerata, in un silenzio di tomba, uno dei più importanti tasselli: la responsabilità politica collegiale e al massimo livello delle decisioni in materia di esportazioni militari. E mai come oggi se ne vede, invece, confermata la necessità, adattandola alle nuove esigenze maturate in questi ventotto anni.
Nessuna iniziativa politica italiana risulta essere stata assunta nell’Unione europea al fine di condividere una comune pressione verso i Paesi convolti nelle operazioni militari in corso nello Yemen. E nessuna iniziativa politica risulta essere stata assunta nei confronti dei due Paesi oggi embargati da parte italiana, con uno dei quali, gli Emirati, abbiamo un consolidato rapporto di collaborazione nel campo della difesa. La Piaggio Aerospace, fino al suo fallimento tre anni or sono, era proprietà di una società emiratina e l’abortito programma per il velivolo a pilotaggio remoto P.1HH aveva come unico cliente le Forze armate di quel Paese.
Le vittime civili di questa guerra hanno giustamente sollevato reazioni e proteste nelle opinioni pubbliche del mondo occidentale e richiedono interventi seri, costanti ed efficaci, come, per altro, lo richiedono le troppe guerre dimenticate che continuano a svolgersi in ogni angolo del mondo. Un Paese serio e responsabile non se ne occupa solo fra un intervento sui social e un altro.