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Trump-Twitter? Diamoci una regolata. Parla Violante

nazionalismo

Ospite dell’incontro di Formiche “Web, social media e diritti fondamentali: il caso americano e gli effetti in Europa”, Luciano Violante, già presidente della Camera, spiega perché il modello Ue è da seguire. Trump-Twitter? La censura non c’entra

Il braccio di ferro fra Donald Trump e le grandi società tech della Silicon Valley, che hanno deciso in massa, da Facebook a Twitter, da Google ad Amazon, di oscurare il suo profilo e quelli dei suoi sostenitori più fanatici all’indomani dell’assalto a Capitol Hill, ha riacceso i riflettori sulla natura di queste aziende, fra chi grida allo scandalo contro la “censura” e chi invece ritiene che il controllo sia fin troppo tardivo.

Per Luciano Violante, già presidente della Camera dei Deputati e presidente della Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine, chi parla di “censura” guarda al dito e non alla luna. Ospite dell’incontro online “Web, social media e diritti fondamentali: il caso americano e gli effetti in Europa” in una conversazione con il direttore di Formiche.net Giorgio Rutelli ha invitato a guardare la disputa americana da un’altra prospettiva.

 

 

Il cuore del problema non è stabilire se i giganti tech siano ancora da considerare enti privati o, per l’immenso potere di mercato e l’influenza sulla società accumulata negli ultimi vent’anni, siano effettivamente delle realtà pubbliche. “Queste grandi compagnie, mi riferisco ai Gafa (Google-Amazon-Facebook-Apple, ndr), ricordano la Compagnia delle Indie, sono grandi soggetti che si comportano come Stati: battono moneta, hanno commissioni giuridiche e un enorme peso finanziario”, ha spiegato Violante. “Ci sono due categorie di poteri: quelli pubblici e quelli privati. Questi soggetti non appartengono a nessuna delle due. Sono un iper-potere”.

Più che su censori e censurati, bisognerebbe allora capire chi e come deve dettare le regole del gioco. Per Violante “il regolatore delle grandi società tech deve essere una guardia di frontiera, non un controllore occhiuto che verifica ogni passaggio. Deve stabilire il limite da non oltrepassare”.

È un compito troppo arduo per un solo Stato, che pure non si può lasciare in mano alle società private. Tantomeno a quelle che, per anni, sono sfuggite al controllo del regolatore pubblico, semplicemente perché non si erano mai preoccupate di decidere quali opinioni fossero censurabili e quali no. “Pensavamo che le nostre opinioni fossero in mano a social networks come Twitter o Facebook. Oggi scopriamo che il problema è più a monte. L’ultima parola spetta ad Amazon, che ha staccato la spina a Parler, o a società di pagamenti cui nessuno ha conferito il potere di decidere cosa sia l’hate speech e finora non hanno mai dovuto giustificare le loro azioni in chiave politica”, ha detto Rutelli.

Da dove iniziare? Violante non ha dubbi. Il modello di regolamentazione della Commissione Ue, declinato in due grandi atti, il Digital Services Act (Dsa) e il Digital Market Act (Dma), è una best practice anche per gli Stati Uniti. “Il Dsa è un testo eccellente, segna una rottura fra la Commissione di Ursula von der Leyen e quella di Jean-Claude Juncker. L’intervento dell’Ue non può che suscitare apprezzamento da parte dei cittadini. Il problema è capire come deve essere governato questo spazio digitale”.

La pensa così anche Luciano Floridi, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. “L’Europa è sulla strada giusta e può fare la differenza, come ha già fatto con il Gdpr sulla privacy”. “Concordo con Violante, il problema non è la censura, ma le regole a monte. Giusto intervenire sull’hate speech, la libertà di parola si scontra sempre con altri diritti. Se ci metti due gocce di aceto anche la migliore bottiglia di vino si rovina”.

La regolamentazione delle piattaforme, però, presenta due rischi sostanziali. Il primo riguarda il mercato, ha spiegato Stefano Da Empoli, presidente di I-Com (Istituto per la competitività). “Se inserisci regole molto dure, si crea un mercato dinamico in cui gli incumbent rimangono tali vita natural durante. Il caso americano è esemplare. Si parla molto di eliminare la Sezione 230 del Communications Act del 1996. Ma bisogna farlo con estrema attenzione, internet non è più quello di vent’anni fa. Altrimenti si rischia di danneggiare la miriade di soggetti di dimensioni minori che senza qualche forma di esenzione non possono operare, consegnando le chiavi della rete ai grandi player”.

Il secondo rischio è, dice Paolo Benanti, docente di Etica delle tecnologie presso l’Università Gregoriana, di tipo antropologico. “Abbiamo bisogno di avere chiara la consapevolezza che non si tratta solo di come utilizziamo il mezzo ma anche di come vogliamo gestire lo spazio pubblico e democratico. Da come organizziamo le tecnologie e come le facciamo proliferare dipende il destino che scegliamo della nostra società”. Per evitare di far regredire questo spazio in una “giungla digitale”, chiude l’esperto, “abbiamo bisogno di una nuova coscienza sociale per regolamentare uno spazio che non può essere lasciato alla legge del più forte”.

Infine, è intervenuto Antonio Palmieri di Forza Italia, rilanciando il Bill of Rights che fu presentato insieme a Laura Boldrini nella scorsa legislatura, e che può essere un’ottima base di partenza per una regolamentazione (europea) della materia. “Non vorrei che per fermare i comportamenti illegali sui social network si finisca per cancellare tutto ciò che qualcuno considera politicamente scorretto”.


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