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Ue-Usa, come cambia il clima con Biden? Il convegno Formiche

Obiettivo zero emissioni entro il 2050. Dopo il rientro degli Stati Uniti negli accordi di Parigi, si riapre la partita per la lotta al clima, anche per la Cina di Xi. Ospiti al convegno di Formiche ““Ue e Stati Uniti, come cambia il clima”, John Podesta, Todd Stern, Mauro Petriccione e Stefano Laporta tracciano una road map

 

Cinque anni dopo il mondo ci riprova. Il rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi sul Clima, certificato nel primo giorno dell’amministrazione di Joe Biden e Kamala Harris, riapre la partita ma a precise condizioni.

Primo: il tempismo. Trenta giorni per presentare i Nationally Determined Contributions (Ndc), cioè gli obiettivi climatici di ogni Stato aderente per ridurre le emissioni di CO2 e tenere la crescita della temperatura sotto i 2 gradi centigradi.

Poi il compito più difficile. Convincere vis à vis il mondo della grande industria a stelle e strisce a passare alle energie rinnovabili, per tener fede a quella roboante promessa pronunciata durante la campagna elettorale: raggiungere la Carbon neutrality entro il 2050, come l’Ue.

È una scalata ripida, ma la lotta ai cambiamenti climatici è un gioco di squadra e alle promesse dovranno far fede anche gli altri grandi player dell’accordo, Cina e Ue. I numeri lasciano spazio a un velo di scetticismo. “Biden ha fissato obiettivi ambiziosi, la neutralità climatica, l’energia pulita al 100% entro il 2035. Ora deve mettere in campo gli strumenti per raggiungerli”.

Parola di John Podesta, presidente e fondatore del Center for American Progress, già consigliere per le politiche climatiche di Barack Obama, capo di gabinetto di Bill Clinton e capo della campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016. Intervenuto al convegno di Formiche, “Ue e Stati Uniti, come cambia il clima”, Podesta ha indicato l’unica, vera pre-condizione per la svolta green: gli investimenti.

“Bisogna partire dalla ripresa economica, senza crescita quei numeri rimangono vuoti”. Biden in campagna elettorale ha annunciato un piano da 2000 miliardi di dollari per tagliare il traguardo del 2050. “E ha fatto anche le scelte giuste per l’amministrazione. Come la nomina a inviato speciale di John Kerry all’interno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Un’ottima intuizione. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono una delle principali minacce alla sicurezza”. Anche per questo, dice Podesta, il presidente vuole agire già nei primi cento giorni di mandato “con un summit globale sul Clima”.

Gli Stati Uniti, insomma, sono back on track. “Ora c’è la possibilità di dar vita a una convergenza su un set di regole e standard fondamentali – dice Arvea Marieni, direttrice dell’Energy Transition Programme dello Strasbourg Policy Center – ci sono forse le condizioni per ridisegnare la riforma di altri forum internazionali, dal Wto al G20 fino alla Cop26, ridiscutere le politiche fiscali e il carbon pricing”.

Gli americani, però, non sono gli unici a dover cambiare passo. Anche la Cina deve accelerare, dice Todd Stern, Nonresident Senior Fellow della Brookings Institution ed ex inviato speciale per il Clima con Obama. “L’annuncio di Xi di una neutralità climatica entro il 2060 è già un passo importante. Finora, però, la Cina non è sulla via per rispettare l’obiettivo di contenere fra 1, 5 e i 2 gradi Celsius il riscaldamento climatico, complice l’inerzia dell’amministrazione Trump, che ha fatto abbassare la guardia. E c’è ancora un’enorme ricorso al carbone. Senza contare la nuova Via della Seta, un progetto che comporta un enorme consumo di energia”.

Stern ha “seri dubbi” sul fatto che Pechino sia più vicina a Bruxelles di Washington, DC nella battaglia per il clima, “con Biden ci sarà un rapido riallineamento con l’Ue”.

Condivide i timori Mauro Petriccione, a capo della Direzione Generale per il Clima della Commissione Ue con un lungo trascorso alla DG Commercio. “Guardiamo alle cifre, l’Europa riduce le emissioni dagli anni ’90. La Cina è passata dal produrre il 20 al 30% delle emissioni mondiali, solo la Mongolia interna consuma più carbone di tutta la Germania”. La Cina, aggiunge, “sta andando verso la direzione giusta. Ma serve anche leadership, visione, strategia. In Europa ci sono tutte e tre. L’impegno pubblico deve essere misurabile. Qui risiede la vera differenza: in Cina abbiamo speranze, negli Stati Uniti aspettative”.

La battaglia finale sul clima, spiega allora Lapo Pistelli, Direttore delle Relazioni istituzionali di Eni, “si giocherà in Asia. L’Europa è virtuosa ma rappresenta una piccola fetta della popolazione mondiale. L’Africa combatte ancora con l’accesso all’energia, la transizione è lontana. Oltre alla Cina ci sono altri Paesi asiatici: India, Bangladesh, Pakistan, Indonesia, hanno una popolazione che va dai 200 milioni a 1, 2 miliardi di persone”.

A cinque anni dalla solenne promessa di Parigi, a che punto stanno l’Italia e l’Ue? La strada è lunga ma gli obiettivi tracciati da Bruxelles sono più che ambiziosi. Il 37% del Next Generation Eu è dedicato agli investimenti green. “L’Ue può raggiungere il traguardo di una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030 e della neutralità climatica entro il 2050”, dice fiducioso il presidente dell’Ispra Stefano Laporta. Tre le priorità per l’Italia, che quest’anno co-presiederà la Cop-26 insieme al Regno Unito. “Investire nel fotovoltaico, bonificare le aree non utilizzabili, investire nell’eolico con la creazione di parchi offshore, garantendo il rispetto dell’ambiente”.

Prima ancora, però, “bisogna coinvolgere i cittadini e le imprese, tutti devono sentirsi parte del progetto”. Come? Numeri alla mano, spiega Ermete Realacci, presidente di Symbola. “Dobbiamo dimostrare che dal green dipende la competitività della nostra economia. In Italia un terzo delle imprese manifatturiere, più di 400mila, ha investito nel green negli ultimi cinque anni. Oggi innovano, esportano, creano posti di lavoro. Il green conviene”.

 

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