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Dopo gli Usa, anche il Regno Unito si muove a difesa degli uiguri. Ecco come

Come ultimo atto prima dell’Inauguration Day di Biden, Pompeo ha definito la persecuzione cinese degli uiguri un “genocidio”. Dibattito acceso anche alla Camera dei Comuni di Londra, dove però si registra una frenata. Il commento di Laura Harth (Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”) 

Giornata storica per il popolo uiguro. Dopo tanti anni di silenzio assordante sulla loro sorte — ricordiamo sempre anche il negato ingresso a Dolkun Isa al Senato italiano quando nell’estate del 2017 venne a denunciare l’inizio (!) della campagna di internamento di massa nello Xinjiang —, ieri sera gli Stati Uniti d’America hanno ufficialmente definito “genocidio” le atrocità in corso nei loro confronti da parte del governo di Pechino. L’ultimo atto di Mike Pompeo da segretario di Stato prima della transizione all’amministrazione Biden oggi è un addio pieno di significato verso Pechino.

La decisione è avvenuta in contemporanea — e con un coordinamento notevole dei membri Ipac su entrambi i lati dell’Atlantico — con un voto storico anche alla Camera dei Comuni a Londra. A seguito di una proposta adottata alla Camera dei Lord e grazie alle forze “ribelle” guidate dai membri Ipac, si è dibattuto al lungo il cosiddetto Genocide Amendment alla nuova legge sul commercio.

L’emendamento mirava a complementare il quadro multilaterale per la prevenzione e la punizione di atti di genocidio, spesso bloccati dai veti russi e cinesi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o semplicemente non applicabili per mancata sottoscrizione degli accordi internazionali pertinenti come nel caso della Cina. Partiva dal presupposto che ogni singolo Stato sottoscrittore della Convenzione sul Genocidio ha un obbligo non solo multilaterale ma anche singolare nel far vivere i provvedimenti di tale Convenzione, soprattutto di fronte alla provata attuale inefficacia dei Tribunali internazionali.

Nei 75 anni trascorsi dai processi di Norimberga, il Regno Unito — come la maggior parte dei Paesi aderenti alla Convenzione sul Genocidio — non è mai riuscito a riconoscere un genocidio mentre era in corso, dando un senso molto amaro alle parole “mai più”. Pertanto i proponenti dell’emendamento hanno voluto creato un meccanismo alternativo, conferendo alle Alte corti britannici il potere di effettuare una determinazione preliminare di genocidio.

Sebbene le Corti non avrebbero il potere di esprimere un “giudizio” a senso lato e quindi di punire i responsabili, la determinazione legale di un genocidio in corso laddove le giurisdizioni internazionali e i meccanismi pertinenti Onu sono bloccati, la mossa conferirebbe ai popoli martoriati dei più gravi crimini contro l’umanità finalmente una via legale dove poter portare i loro reclami e veder riconosciute le loro prove.

Inoltre, la scelta di legare l’emendamento alla nuova legge sul commercio — la prima propria del Regno Unito in 50 anni, dopo la sua uscita dall’Unione europea — non è casuale. Un’eventuale determinazione legale da parte delle Corti dovrebbe andare a consigliare i governi circa la sospensione di eventuali Accordi bilaterali commerciali con i Paesi coinvolti. Con questa scelta i proponenti nel Parlamento britannico hanno voluto dire con chiarezza che chi si macchia di atti genocidari non andrebbe ricompensato con lucrosi accordi commerciali.

L’emendamento non nominava espressamente la Repubblica popolare cinese, ma durante tutta la forte campagna, guidata in primis da Luke de Pulford, il riferimento a quanto accade sotto i nostri occhi con il popolo uiguro nello Xinjiang è stato chiaro e molto presente, con un sostegno notevole da parte della comunità ebraica nel Paese. L’emendamento è stato sconfitta in serata per una manciata di voti (319 a 308), ma una versione rivisitata, che dettaglia la procedura parlamentare e governativa nel caso le Corti stabiliscono la presenza di genocidio, tornerà immediatamente alla Camera dei Lord su proposta di Lord David Alton. Pare quindi evidente che si tratti soltanto di un rinvio temporaneo.

Immediatamente dopo la sconfitta nel voto infatti, Sir Iain Duncan-Smith, ex leader del Partito conservatore e co-presidente Ipac ha dichiarato: “La ribellione di oggi mostra che il governo non può più ignorare le richieste di portare i casi di genocidio dinanzi ai tribunali del Regno Unito. Continueremo a lavorare su questo emendamento, tenendo conto dei punti sollevati dai deputati alla Camera oggi, e spero che la Camera dei Lord assicurerà che un emendamento migliorato ritorni presto alla Camera dei Comuni”. E ancora: “L’ostinata ignoranza nei confronti di un presunto genocidio e delle gravi violazioni dei diritti umani in Cina e altrove deve cessare, non svendiamo i nostri valori per accordi commerciali con Stati genocidari”.

Sia la decisione statunitense sia la direzione britannica sono segni evidenti di un mondo occidentale che ha voglia di ricompattarsi intorno ai suoi valori fondanti, con un ruolo centrale per i parlamenti nell’affermare la centralità della difesa dello stato di diritto e dei diritti umani. Di fronte a istituzioni multilaterali troppo spesso bloccati dall’ingovernabilità cronica intergovernativa, con Paesi autoritari che comandano sempre più peso al loro interno, vi è un mondo che si solleva e agisce inventando ed adottando nuovi strumenti efficaci.

Segna anche il ritorno di una Global Britain: un Regno Unito che solo pochi anni fa, sotto il governo di David Cameron, rischiava di legarsi mani e piedi al regime di Pechino, ma che dopo la sua uscita dell’Unione europea torna con fervore sulla scena mondiale e in forte partenariato con gli Stati Uniti, nonché dentro la coalizione dei Five Eyes. È atteso che saranno gli stessi Paesi a lavorare verso un summit di (dieci) democrazie, una riunione che indubbiamente sarà (anche) incentrato sullo scontro valoriale con la Repubblica popolare guidata dal Partito comunista cinese.

Il messaggio all’Unione europea — dove è in corso una lotta tra una Commissione europea a traino tedesco e il Parlamento europeo sul nuovo Accordo complessivo sugli investimenti con la Cina — e all’Italia non poteva essere più chiaro. Le speranze del presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel suo discorso alla Camera lunedì scorso di poter giocare un “ruolo di raccordo” tra Stati Uniti e Repubblica popolare sono da considerarsi non solo morte ma anche sepolte.

Sembra esservi ancora tanta confusione e volontà di rimanere parcheggiati un po’ immobili al centro. Un po’ di qua e un po’ di là, nella speranza che qualcuno ci raccolga. Ma il tempo sta scadendo. Urge una scelta di campo se non si vorrà rimanere ai margini non solo del futuro immediato ma anche della storia. E visto la feroce repressione in corso per mano del Partito comunista cinese, tale storia rischia di non essere clemente.


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