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Vi spiego il (vero) piano di Navalny in Russia. Scrive Pellicciari

Un gesto di coraggio, sì, ma anche un piano ben studiato. Igor Pellicciari, professore all’Università di Urbino e alla Luiss, spiega perché l’oppositore di Putin Navalny guarda (anche) alle elezioni di settembre 2021

Il ritorno di Alexey Navanly a Mosca è sorprendente sequel di una delle rare vicende che nell’anno passato, dominato dalla monotonia drammatica del Covid, è riuscita a ritagliarsi una propria visibilità internazionale.

A ben guardare questo nuovo capitolo sembra attrarre un’attenzione addirittura maggiore di quella dell’avvelenamento dell’oppositore russo nell’Agosto 2020, che ispirò una delle nostre analisi più lette su Formiche.net.

Se all’epoca il ricovero di Navalny prima ad Omsk e poi in Germania è stato clamoroso, ben più dirompente oggi è la sua decisione di tornare in Russia. Ad un primo sguardo superficiale questa potrebbe sembrare una scelta del tutto irrazionale e si fatica a comprendere perché egli si sia riconsegnato nelle mani di chi ritiene sia il suo carnefice, peraltro, come spiegheremo, con la certezza di essere arrestato.

Mettendo a raffronto i due episodi (avvelenamento + ritorno) collegati in sequenza cronologica ma tutt’altro che scontati, emerge che la mossa di Navalny, per come è maturata, è frutto di una lucida scelta tattica.

Che avrà notevoli conseguenze sul piano politico piuttosto che su quello giudiziario, destinato di nuovo a sgonfiarsi in breve tempo.

Alla ricerca di momenti eclatanti con cui cibare un sistema dell’informazione oramai affamato più di immagini che di parole, ancora una volta l’Occidente si è concentrato quasi esclusivamente sull’iconico arresto dell’oppositore all’arrivo all’aeroporto di Sheremetevo. In realtà molto fa presupporre che questo atto sia stato da lui stesso programmato con grande abilità e che sia parte di un preciso piano.

Quando Mosca intimò a Navalny, ripresosi in Germania dall’avvelenamento, di rientrare entro Ottobre 2020 in madrepatria per scontare il resto della sua pena (30 giorni) per passate condanne in regime di libertà condizionata di cui godeva, pena la sua revoca ed il ritorno in carcere, molti osservatori – non solo di questioni russe – sorrisero ironici.

Era sembrato un irricevibile invito frutto di un tipico automatismo burocratico l’intimargli di rimettersi sotto l’autorità di uno Stato che lui stesso con tanta veemenza aveva denunciato di avere attentato alla sua vita.

Invece Navalny non solo si è recato di sua volontà in Russia, ma ha programmato minuziosamente le modalità del ritorno (si veda l’appello rivolto ai sostenitori di attenderlo in massa all’arrivo) ed ha scelto di farlo cadere apposta dopo i termini massimi fissati per potere godere ancora della libertà vigilata.

Il sospetto è che lo abbia fatto per provocare la prevedibile ottusa reazione formalista del sistema giudiziario russo e centrare l’obiettivo di un ennesimo arresto breve (questa volta per un mese) che ha dato a lui la consueta visibilità positiva ed a Mosca la solita cascata di critiche.

Viene da chiedersi tuttavia quale sia allora il movente di questa mossa abile ma di certo rischiosa. Più che sul piano internazionale la risposta va cercata sul piano interno, dove Navalny vuole rilanciare il suo ruolo politico attivo in vista del banco di prova delle elezioni parlamentari di settembre 2021, nel tentativo di aggregare attorno alla sua figura una forza di opposizione unitaria.

Oltre a quello “anti-corruzione” del blogger, il fronte del dissenso al Cremlino in questi anni si è arricchito di altri filoni (da quello regionalista a quello ambientalista, a quello dei Millenials) e ad oggi è ancora frammentato e senza una guida unica.

Il Partito Comunista, principale forza di opposizione parlamentare è, anche grazie alle sue ramificazioni organizzative, un esercito con una leadership quasi anonima. Navalny sembra invece essere un generale con pochi soldati effettivi. Punto di riferimento del dissenso movimentista ma senza una propria organizzazione partitica nazionale che gli permetta di incidere elettoralmente in forma significativa.

La visibilità datagli dal mainstream internazionale (il personaggio indubbiamente “buca il video”) ne hanno fatto ad oggi una figura di denuncia più simile a Greta Thunberg che a un Leader del Popolo sul piano interno, credibile nel candidarsi a governare il Paese e non solo a svelarne le corruzioni.

Con il suo clamoroso ritorno in Russia, Navalny cerca di riequilibrare questo sbilanciamento di immagine in vista di una più convinta discesa nella competizione elettorale.  Per farlo si smarca dal ruolo stretto di santino laico raffigurante il leader del dissenso in esilio da interpellare sul media Occidentali a seconda della critica del momento da muovere alla Russia, sul modello oramai superato di Garri Kasparov.

È prematuro dire quanto questa operazione avrà successo anche se i margini per una crescita interna dell’opposizione sono oggi maggiori che in passato, dato il delicato momento socio-economico che passa l’opinione pubblica russa.

Uscita provata da un annus horribilis che ha visto in contemporanea una grave crisi del Covid, il passaggio critico delle riforme costituzionali e una guerra del greggio (con ripercussioni sul rublo e sul bilancio dello Stato a scapito della piccola imprenditorialità), essa guarda al suo futuro con un senso di incertezza che risveglia antichi fantasmi recessivi.

Inoltre, la stessa dimestichezza e confidenza mostrata da Navalny nell’ “Operazione Ritorno”– per non dire delle riservate informazioni che svela nelle sue dettagliate inchieste anti-corruzione – autorizzano a ipotizzare che egli goda di coperture all’interno dello stesso Deep State contro cui si scaglia.

Che ne farebbero uno strumento, forse inconsapevole, nello scontro interno ad una leadership tecnocratica in perenne posizionamento per il dopo-Vladimir Putin, che non potrà essere in eterno una panacea per risolvere ogni contraddizione interna al sistema politico russo.

Il cui carisma, come del resto anche quello di Navalny, ha sofferto l’effetto depotenziante di un anno politico, per colpa del virus, vissuto a distanza dalle proprie masse di riferimento. E che, con una dose di amaro sarcasmo, potremmo soprannominare “Stagione della PAD (Politica a Distanza)”.

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