È necessaria una rivoluzione copernicana per passare dall’ambientalismo “difensivo” alla transizione ecologica propulsiva, affinché ci siano le condizioni e gli strumenti per contemperare le esigenze di progresso e di crescita con la necessità di migliorare la tutela dell’ecosistema. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
Il 17 novembre del 2018, alle 7,30 del mattino, nei pressi della stazione della metropolitana parigina di Porte Maillot diverse centinaia di persone, tutte con indosso il gilet catarifrangente giallo dei motociclisti, hanno dato avvio a una manifestazione di protesta contro il governo del presidente Macron, una protesta che si è poi diffusa a tutto il territorio metropolitano francese ed è durata quasi un anno al costo di 15 morti e diverse centinaia di feriti.
È stata la protesta dei “gilet gialli”, impiegati e lavoratori di ogni ordine e grado scesi in campo, dopo una mobilitazione realizzata via facebook, per protestare – almeno inizialmente – contro l’aumento dei carburanti deciso dall’Eliseo per limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e per tentare, quindi, di raggiungere la soglia di contenimento delle emissioni di CO2 prevista dagli accordi di Parigi del 2012 miranti a combattere il surriscaldamento del pianeta e l’emergenza climatica.
La decisione di Macron e dei sui ministri di tutelare l’ambiente aumentando le tasse, innescando le violente manifestazioni dei “gilet gialli”, è un classico esempio di quello che possiamo definire “ambientalismo difensivo”: si tratta di quel tipo di approccio, purtroppo molto legato a un’ideologia ecologista ormai datata, che, di fronte ai danni, attuali o potenziali, provocati dall’uomo alla natura con gli strumenti essenziali allo sviluppo delle economie del terzo millennio, tenta di limitarne l’impatto negativo con divieti, controlli, barriere, tasse e accise.
È un tipo di “difesa” dell’ambiente che, lungi dal provocare quella “decrescita felice” tanto cara a Rousseau e ai suoi epigoni contemporanei, è destinato inevitabilmente a provocare una “decrescita infelice” e l’inevitabile collasso di economie ad alto tasso di industrializzazione senza le quali sarebbe impossibile assicurare la sopravvivenza dei sette miliardi di abitanti di questo pianeta.
Con questo non si vuole sostenere la tesi secondo la quale il progresso economico debba procedere indipendentemente dai danni che il suo perseguimento provoca all’ambiente.
Tutt’altro.
Esistono oggi le condizioni e gli strumenti per contemperare le esigenze di progresso e di crescita con le sacrosante esigenze di migliorare la tutela dell’ecosistema in cui viviamo.
Per secoli l’uomo si è nutrito e si è riscaldato con l’uso delle prime fonti di energia disponibili: il legno e il carbone.
Quest’ultimo è stato poi il protagonista della prima rivoluzione industriale, quando è stato usato non solo per riscaldare le abitazioni, ma soprattutto per alimentare le turbine a vapore acqueo che hanno mosso macchine tessili, navi e treni.
Il carbone come fonte di energia è stato protagonista anche della seconda rivoluzione industriale, insieme, principalmente, al petrolio e ai suoi derivati gassosi e da ultimo alla (pericolosa) energia nucleare, contribuendo a costruire le basi del mondo in cui oggi viviamo, un mondo nel quale la crescita demografica e l’innalzamento impressionante dei tempi di vita media della popolazione sono testimoni di un successo innegabile della capacità della scienza e della capacità di intrapresa dell’essere umano.
Tutto questo ha avuto dei costi: per crescere e stare meglio abbiamo progressivamente impoverito e danneggiato l’ambiente in cui viviamo e questo ha fatto crescere la spinta alla sua difesa con l’approccio sopradescritto.
Difendere attraverso i divieti.
Abbattere l’uso di fonti di energia inquinanti aumentando le tasse sulla loro produzione, senza tener conto dei relativi effetti negativi economici e sociali che provocano poi conseguenze politiche e sovversive come il fenomeno dei “gilet gialli”.
Negli ultimi anni, tuttavia, grazie all’impegno di bravi ricercatori e di “capitani coraggiosi” della piccola, media e grande impresa si è fatta strada a livello globale l’idea che l’ambiente si possa difendere senza imbrigliare il progresso con costi e divieti piovuti dall’alto spesso sull’onda di pressioni ideologiche antiscientifiche.
Questo importante cambiamento di paradigma ha la sua base nella scoperta che le fonti di energia rinnovabile naturali come il sole, il vento e il mare possono non soltanto ridurre i livelli di inquinamento planetario ma soprattutto contribuire a una crescita sana e “pulita” di tutta l’umanità.
Non a caso, la Cina, dopo tre decenni di crescita vorticosa che, se hanno migliorato sensibilmente le condizioni di vita della popolazione, hanno tuttavia comportato tassi di inquinamento ambientale e atmosferico a tratti incompatibili con la vita umana e comunque micidiali per flora e fauna, ha deciso alla fine dello scorso anno di varare un piano quinquennale, il quattordicesimo, che prevede entro il 2030 di abbattere le emissioni di CO2 del 65% rispetto all’anno 2005.
Per raggiungere questi risultati il governo di Pechino ha promosso accordi di cooperazione con l’Europa e dato impulso, grazie all’impegno del giovane ministro delle Risorse naturali Lu Hao, alla ricerca e sviluppo nel campo delle energie rinnovabili per la produzione di elettricità a partire dall’acqua e dall’idrogeno.
L’idrogeno può diventare l’anello di congiunzione tra progresso, sviluppo e tutela dell’ecosistema e il fattore propulsivo di quella “transizione ecologica” ritenuta ormai da molti governi, compreso il nostro, un elemento fondamentale di crescita economica basata su un “ambientalismo propulsivo”, un ecologismo, cioè, non più paralizzante e anti scientifico ma che sia la fonte di una riconversione industriale mirante alla crescita e allo sviluppo globale ambedue “puliti”.
L’idrogeno non è solo il primo elemento della tavola degli elementi di Mendeleev, ma è anche la sostanza più abbondante sul pianeta e nell’intero universo.
Esso, tuttavia, non è disponibile nella sua forma gassosa in natura, essendo sempre legato ad altri elementi, come l’ossigeno, nell’acqua (H2O), e il metano (CH4).
Per questo l’idrogeno per essere usato come forma di energia gassosa deve prima essere “staccato” dagli altri elementi che lo legano, un processo che richiede energia e che, per quanto riguarda la separazione dal metano, può produrre gas serra inquinanti e dannosi per l’ambiente, il cosiddetto “idrogeno grigio”.
Ma perché usare l’idrogeno? La risposta è molto semplice: perché è un gas più leggero dell’aria, non tossico, che può se opportunamente estratto e immagazzinato essere usato come fonte di energia per il riscaldamento, per la propulsione di autovetture, treni e razzi e sostituire tutte le fonti di energia non rinnovabile e inquinanti nei processi di produzione industriale.
Il modo migliore per produrre idrogeno pulito, il cosiddetto “idrogeno verde” per distinguerlo dal “grigio” proveniente dal metano, è di estrarlo dall’acqua attraverso il meccanismo dell’elettrolisi, un processo chimico di scissione dell’acqua, che ha, tuttavia il difetto di richiedere una notevole quantità di energia elettrica –prodotta al momento con i sistemi tradizionali e cioè con le energie non rinnovabili – per ottenerne quantità significative di gas stoccabile e utilizzabile.
Insomma il paradosso è questo: per ottenere una fonte di energia pulita e abbondantemente disponibile in natura occorre usare strumenti costosi e inquinanti.
Il paradosso ha frenato la produzione di idrogeno industriale, fino a quando ha preso forma l’idea di creare una sorta di “economia circolare”.
Nel ciclo di produzione dell’idrogeno, un ciclo che intende utilizzare l’energia elettrica prodotta dalle onde, naturali o artificiali, del mare per attivare il processo elettrolitico che, separando l’idrogeno dall’ossigeno nell’acqua marina, produce una fonte di energia rinnovabile praticamente inesauribile, con costi sempre minori e comunque competitivi rispetto a quelli sostenuti per la produzione delle fonti di energia tradizionale (Carbone, petrolio e gas) e fortemente inquinante.
Usare le fonti rinnovabili, sole, vento e soprattutto mare, per produrre un gas energetico e pulito come l’idrogeno, può rappresentare la soluzione dell’equazione sviluppo-ambiente in modo accettabile e assertivo.
L’idrogeno può costituire, se opportunamente sostenuto dall’attenzione e dalla spinta della politica, la base per la ripartenza del nostro paese al termine della crisi pandemica ed essere fonte non solo di energia non inquinante ma anche fonte di cooperazione scientifica, economica e politica tra Europa (con l’Italia in prima fila per il livello della sua ricerca applicata), Stati Uniti e Cina, contribuendo, quindi non solo al risanamento delle economie e dell’ambiente, ma anche a quello delle relazioni internazionali.