Come siamo arrivati a questo punto? Come continueranno le cose? Ci saranno effetti internazionali? La presa del potere dei militari in Birmania apre a diverse domande, con il Paese che piomba di nuovo sotto il controllo dei generali. Sciorati (Ispi): “Che fine faranno le minoranze?”
L’esercito birmano ha proclamato lo stato d’emergenza per un anno dopo aver arrestato all’alba Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia – Nld, partito di maggioranza parlamentare – e capo del governo de facto. Il Paese è isolato: bloccate le linee telefoniche nella capitale Naypyitaw e nella città di Yangon, chiusa la televisione di stato. A guidare la presa militare è il generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate, che ha sostenuto di aver agito perché alle ultime elezioni – tenute l’8 novembre – ci sarebbero stati dei brogli non individuati dalla commissione esaminatrice. Tra gli arrestati ci sono dozzine di esponenti della Lega e il presidente Win Myint.
La tempistica è chiara: impedire la riunione del nuovo parlamento che si sarebbe dovuto insediare oggi, 1 febbraio. L’affidamento del potere all’ex generale Myint Swe è un simbolo. I militari già da novembre contestano i risultati – chiuse con un esito schiacciante a favore del Nld, che ha ottenuto l’83 per cento dei seggi dell’Assemblea dell’Unione. I generali sostenevano il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (Usdp), finito in netta minoranza, e dalla scorsa settimana minacciano di voler “entrare in azione“. Min Aung Hlaing aveva già annunciato che se “se non rispettata, la Costituzione dovrebbe essere revocata”: detto fatto.
Un’ombra che cancella una travagliata transizione del potere che dura da un decennio, che rompe il tentativo di democratizzazione, e che ricorda come già in passato i militari non hanno avuto freni nel contrastare chi gli si opponeva. Per ora c’è uno stato di calma apparente. Tecnicamente l’operazione non è un colpo di Stato, sebbene lo sia di fatto: secondo il sistema birmano, il 25 per cento del Parlamento è costruito da nomine militari, e al capo della forze armate è affidato il diritto di dichiarare lo stato d’emergenza e sciogliere l’assise. La mossa sul potere è stata anche facilitata dalla pandemia: come in altri casi, le autorità hanno sfruttato la necessità di contenimento epidemiologico per produrre azioni restrittive.
In diversi Paesi in cui vivono minoranze birmane, per esempio in Thailandia, sono in corso dimostrazioni a favore di Aung San Suu Kyi, che è ancora considerata un’eroina democratica nel Paese – mentre e livello internazionale ha perso parte dei consensi dopo aver difeso i militari birmani sulla vicenda che ha coinvolto la minoranza Rohingya, contro cui l’Onu ritiene sia stata compiuta una campagna di pulizia etnica da parte del Myanmar. Un ruolo, quello di San Suu Kyi in parte ereditato dal padre – generale protagonista dell’indipendenza dall’impero britannico – e in parte legato agli anni in cui aveva lottato per la democrazia, chiusa in carcere come prigioniera politica (vicenda per cui vinse il Premio Nobel per la Pace nel 1991).
Dietro al consenso della leader c’è una divisione etnica-culturale. San Suu Kyi gode del sostegno dei burmesi buddisti – gruppo maggioritario che rappresenta il 70 per cento della popolazione – e come nel caso dei Rohingya ha dimostrato di non essere troppo aperta con le minoranze. L’esclusione di alcune aree del Paese dal diritto di voto, ufficialmente per questioni di sicurezza nazionale, è stata letta come un modo per tenere lontano dai seggi chi avrebbe dovuto non votarla proprio sulla scorta delle posizioni prese nei confronti dei gruppi etnici minori. A settembre dello scorso anno, l’Onu aveva detto di non poter giudicare come libere le elezioni che si sarebbero svolte di lì e due mesi, proprio perché alle minoranze e ai rifugiati Rohingya in Bangladesh non veniva permesso il voto.
E dunque, dopo un esercizio di governo quasi-democratico, il Myanmar è nuovamente sotto l’amministrazione diretta della giunta militare che, “è bene ricordarlo, è al potere, in un modo o nell’altro, da quasi 60 anni”, sottolinea a Formiche.net Giulia Sciorati, associate research fellow del Programma Asia dell’Ispi.
“Quello che la giunta ha promesso è che, dopo circa un anno in stato di emergenza in cui sarà l’esercito a governare il Paese, si terranno delle nuove elezioni, questa volta libere (secondo i militari, ndr). L’arresto di diversi esponenti della società civile, tuttavia, sottolinea come, in realtà, i risultati elettorali di novembre siano stati, in qualche modo, un referendum popolare (come definito da molti) a favore di Aung San Suu Kyi e del suo partito: qualcosa che ha innervosito la giunta”, spiega Sciorati.
La situazione ha prodotto diverse reazioni internazionali, dagli Stati Uniti all’Europa (sia come Unione che come stati membri, Italia compresa), alla Cina – legata alla Birmania da quella che la narrazione chiama pauk-phaw, fratellanza. Esiste un contraccolpo internazionale della crisi che si è prodotta? “La vita politica birmana – risponde Sciorati – risveglia sempre l’attenzione internazionale, soprattutto quella statunitense. Ma ciò che sta accadendo in Myanmar è radicato nella politica interna del paese e, in particolare, nelle tensioni che storicamente ne dividono la società”.
Non a caso alle elezioni di novembre, c’erano stati degli “standard doppi” per quanto riguarda la possibilità di andare a votare in quegli stati abitati dalle minoranze, ricorda l’analista: “La questione etnico-religiosa, dopo la pandemia da Covid-19, rischia di essere ulteriormente aggravata dalle disuguaglianze dilaganti che vanno a colpire le fasce più fragili della popolazione che, nel paese, sono rappresentate proprio dai gruppi etnici minoritari. Oltre che interrogarci sul destino della democrazia birmana, ciò che dovremmo chiederci è proprio questo: cosa succederà alle minoranze etniche e religiose?”.
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