Ospiti del live talk di Formiche “Biden foreign policy” la vicepresidente del Centro Studi Americani Marta Dassù e il direttore di Aspenia Online Roberto Menotti spiegano il nuovo corso diplomatico americano. Berlino al centro delle geometrie europee, ma anche Roma può avere spazio. Cina, Russia, Iran, ecco la virata
Altro che Sleepy Joe. A Washington DC tira una nuova aria anche per la politica estera americana. E chi credeva che l’amministrazione di Joe Biden e Kamala Harris stesse per inaugurare una restaurazione dell’era Obama rischia di aver fatto male i conti.
Il primo Foreign policy speech del presidente, pronunciato giovedì a Foggy Bottom, nella sede del Dipartimento di Stato, sta lì a dimostrarlo. La dottrina Biden per gli affari esteri è più disruptive di quanto non si pensi, hanno spiegato la vicepresidente del Centro Studi Americani Marta Dassù e il direttore di Aspenia Online Roberto Menotti nell’ultimo Live Talk di Formiche, “Biden foreign policy”.
Non sbaglia chi parla di un ritorno al “vecchio metodo”. Quanto ai rapporti con il mondo diplomatico la Casa Bianca di Donald Trump è stata davvero una parentesi nella storia americana. Il Tycoon, ha ricordato Dassù, era solito scherzare sul “Deep State Department” e preferiva presentarsi al Pentagono o alla Cia.
“Diplomacy is back” è invece il manifesto con cui Biden avvia un nuovo corso. Diretto dove? È forse prematuro tratteggiare una cartina. Ma le prime avvisaglie suggeriscono un approccio molto assertivo alla diplomazia. Sempre e comunque commisurato alle (gravi) emergenze di politica interna.
Biden terrà fede a un vecchio motto americano, dice Dassù: “Foreign policy begins at home”. Perfino il Consigliere per la sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, in una recente intervista ha detto chiaro e tondo: la politica estera dovrà “andare bene alla working class”. Premure dovute, con un Paese in cui 75 milioni di persone hanno dato il loro voto a Trump, tre mesi or sono. Dove aspettarsi allora la principale discontinuità?
Il primo segnale arriva dall’Europa. Il rapporto bilaterale con Washington DC riscopre una triangolazione scomparsa da quattro anni e passa di nuovo per Bruxelles. Una buona notizia, forse, per l’Italia, che a Palazzo Chigi vede entrare il “Mr Europa” per eccellenza, Mario Draghi. “Avrà molto ascolto a Washington DC, ha ottimi rapporti personali con la Segretaria al Tesoro Janet Yellen”, spiega Dassù, “e poi presiederà il G20, un appuntamento cui Biden guarda con enorme interesse”. “L’Italia dovrà giocare le sue carte forti – aggiunge Menotti – partendo dai dossier bilaterali su cui ha voce in capitolo. Penso all’Egitto, un Paese – chiave per la partita energetica di East-Med, così come alla Libia”.
È pur vero che i primi contatti dell’amministrazione americana hanno bypassato Roma, complice la crisi. Come la telefonata del segretario di Stato Anthony Blinken giovedì ai colleghi di Francia, Germania e Regno Unito, “il formato 3+1, consolidato nei negoziati per l’accordo sul nucleare iraniano, sarà centrale”, dice Dassù.
Ma le apparenze possono ingannare. Con la Germania di Angela Merkel, la cancelliera di ferro prossima ad abbandonare la scena, le frizioni non mancheranno. Sulla Russia, spiega l’ex viceministro agli Esteri, “il caso del gasdotto North Stream II è difficile da risolvere e si interseca con il caso Navalny, gli Usa aumenteranno le sanzioni e Berlino continua a giocare sulla difensiva”. Ma anche sulla Cina, rivale sistemico ancora e forse più di prima in cima all’agenda sicurezza della Casa Bianca. La fuga in avanti dei tedeschi sull’accordo per gli investimenti fra Ue e Cina, il Cai (Comprehensive agreement on investments), ha lasciato l’amaro in bocca al nuovo governo Usa.
Di qui la seconda, grande cesura con l’era Trump, i rapporti con la Russia di Vladimir Putin. Dice Menotti: “Nel suo discorso Biden è stato durissimo sulla vicenda Navalny, ma ha anche lasciato spazio per l’engagement, e non a caso la prima mossa della sua amministrazione è stato rinnovare il trattato sulla proliferazione missilistica Start”. Il cambio di passo però è notevole. “Richiamando la comunità internazionale sul caso Navalny, Biden sottintende che gli Usa ne sono di nuovo alla guida. È ritornato l’eccezionalismo americano”.
Di continuità si può davvero parlare in merito ai rapporti con Pechino. “Non c’è un briciolo di democrazia” in Cina, ha tuonato Biden in un’intervista sulla Cbs che ha richiamato i toni da “falco” del team Trump, gli stessi usati in una durissima telefonata con l’omologo cinese da parte di Blinken. L’idea di fondo, nota Dassù, è che “l’America, a differenza della Germania, ha smesso di credere che una maggiore integrazione economica con la Cina produca maggiore democrazia e ha accettato di trattare Pechino come un rivale sistemico con cui restano limitati spazi di cooperazione”.
Un riassetto imponente della politica estera americana è invece già in corso in un’area che è stata al centro dell’agenda Trump, il Medio Oriente. In due settimane la virata di Biden è già sotto gli occhi di tutti. La ripresa dei contatti sul nucleare con l’Iran, anche se, ha detto alla Cbs, “non saranno sospese le sanzioni”. Gli aiuti ai palestinesi. Ma soprattutto la sospensione della vendita di armi all’Arabia Saudita per la guerra in Yemen contro i ribelli Houthi (sponsorizzati dai pasdaran iraniani) che, di colpo, sono usciti dalla lista nera del terrorismo degli Usa.
“Qui c’è da aspettarsi un contrasto molto forte – avvisa Menotti – questa è una decisione che avrà effetti a cascata su tutta la regione, rimetterà in moto la questione iraniana. Biden conosce bene il dossier: non dimentichiamo che, quando nel 2015 Obama supportò Riad in Yemen anche per far digerire l’accordo iraniano Jcpoa, lui era vicepresidente. I prossimi mesi ci diranno di quanto effettivamente si sposterà il baricentro americano”.