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Così l’accordo Ue-Cina ha spaccato l’asse franco-tedesco. Il commento di Amighini

La firma dell’accordo commerciale Ue-Cina ha spaccato l’asse franco-tedesco ed esposto a problemi l’allineamento tra Usa e Ue nei confronti di Pechino, che con Biden seguirà un processo di condivisione multilaterale. Conversazione con Alessia Amighini, economista dell’Università del Piemonte Orientale e co-head dell’Asia Center dell’Ispi

La scorsa settimana, parlando nel primo giorno del Forum economico di Davos, il ministro dell’Economia e dell’Energia tedesco, Peter Altmaier, ha detto che “non è stato un errore” aver firmato il Cai, l’accordo commerciale tra Ue e Cina – siglato poche settimane prima dell’insediamento del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Altemaier, alla CNBC, ha dichiarato che l’intesa è “in gran parte gemella degli accordi che gli Stati Uniti hanno già con la Cina” e che si tratta “di creare condizioni di parità”.

Se per Berlino la linea seguita è stata quella giusta, tanto non lo è stato per la Francia e per la Spagna – quest’ultima sempre più preoccupata della crescita dell’influenza cinese in Sudamerica e nel Mediterraneo. “L’accordo ha rotto l’asse franco-tedesco all’interno dell’Ue, e ora Parigi e Madrid sembrano allineati sulla necessità di richiamare anche l’Italia, ancora un po’ in confusione sul tema, per aprire una posizione più equilibrata sulla Cina rispetto a quella che le imprese tedesche hanno imposto al governo di Berlino, che a sua volta ha imposto a Bruxelles”, spiega a Formiche.net Alessia Amighini, economista dell’Università del Piemonte Orientale e co-head dell’Asia Center dell’Ispi.

La questione del Cai ha sollevato un grosso dibattito all’interno dei Paesi membri dell’Unione. Ci si interroga sulla linea da seguire con la Cina, sulla necessità di trovare un allineamento strategico con gli Stati Uniti, sulle ambiguità riguardo alla fretta eccessiva nella firma di un’intesa che mette da parte diversi aspetti importanti nelle relazioni con Pechino. Per Amighini siamo realmente davanti a “un momentum”. Lo dimostra anche la diatriba in corso tra Europarlamento e Commissione: non è così?

“La Commissione – risponde Amighini – parla tedesco, e a Berlino non è possibile essere troppo lontani dalla Cina, perché oltre il 30 per cento del fatturato delle imprese in Germania è legato al mercato cinese, e non è nuovo che il mondo dell’imprenditoria detti la politica tedesca, con ricadute sull’Ue. Differentemente, quando il Parlamento europeo ha visto che nel Cai si è stati laschi su temi come i lavori forzati o i sussidi statali alle imprese cinesi, si è aperto il dibattito”.

Recentemente sono usciti diversi articoli critici sul Cai e sulla direzione del rapporto Ue-Cina anche in ottica Usa. Uno dei commentatori di punta sugli affari europei, Gideon Rachman del Financial Times, ha parlato dell’intesa come di un “calcio nei denti” al nuovo presidente statunitense, Joe Biden. Ma secondo Amighini non è del tutto così: “L’accordo era in effetti sul tavolo da tempo”, spiega – come ricordato anche da Altemaier. “Il punto – aggiunge – è stata l’accelerazione della firma, che è sembrata figlia di decisioni miopi, molto a corto respiro, che poi innescano questo genere di problemi”.

Gli interessi europei e statunitensi sono effettivamente convergenti sulla Cina, e c’è il desiderio di condividere con Biden un approccio multilaterale. “In precedenza c’è stato anche un linguaggio frutto del momento”, aggiunge Amighini riferendosi a termini come sovranità europea e autonomia strategica. Il momento a cui si riferisce è quello in cui l’amministrazione Trump aveva “messo in mezzo l’Europa, imponendole di essere terza ed equilibrata, per evitare di sposare una linea eccessivamente aggressiva. Eravamo trattati da rivali e da concorrenti da Washington e cercare faticosamente spazi era ciò che siamo stati costretti a fare”. Ora con Biden si prospetta qualcosa di diverso.

Nelle scorse settimane Amighini è uscita in libreria con “Finanzia e Potere lungo le Vie della seta“, pubblicato da Egea, casa editrice dell’Università Bocconi. Nel testo la docente italiana analizza una prospettiva anche a più lungo raggio rispetto al dibattito in corso in Occidente, ossia valuta la strategia cinese di internazionalizzazione finanziaria, e implicitamente di riduzione della sua dipendenza dal dollaro. Conclusione in estrema sintesi: il renminbi rimane l’elemento di debolezza di questo enorme progetto finanziario del Partito/Stato. Ma resta uno dei grandi argomenti al fondo del rapporto tra Pechino, Bruxelles e Washington. “Infatti, la Cina aumenta sempre più la sua presenza nel mondo non più solo attraverso commercio e investimenti, ma anche attraverso un tentativo di renminbizzazione di alcune aree, con l’obiettivo di creare un blocco del renminbi”, chiude Amighini.



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