Conversazione con Antoine Courban, cristiano ortodosso, docente all’Università dei gesuiti Saint Joseph a Beirut, interlocutore culturale della scuola teologica sciita di Najaf, che segue con attenzione e trepidazione gli sviluppi e l’approssimarsi del viaggio iracheno di papa Francesco
Sotto assedio, in una città morente dal 4 agosto dello scorso anno, quando è stata devastata da un’esplosione sulla quale il governo libanese sembra non voler indagare tanto da aver rimosso non i sospetti autori del crimine ma il magistrato che li indagava, il professor Antoine Courban, uomo così radicato nella scelta dell’ecumenismo da essere un cristiano ortodosso e docente all’Università dei gesuiti Saint Joseph, interlocutore stimato e ascoltato da anni della più importante università islamica sunnita, al-Azhar, e della fondazione al-Khoei, punto di riferimento teologico e culturale della scuola teologica sciita di Najaf, segue con attenzione e trepidazione gli sviluppi e l’approssimarsi del viaggio iracheno di Francesco.
Cosa significa per lei che il papa stia per visitare la città santa degli sciiti, Najaf, dove incontrerà l’ayatollah al Sistani?
“Un passo storico per tutto il Mediterraneo, che va capito. Vede, un incontro a Baghdad con l’ayatollah al-Sistani avrebbe significato l’incontro tra due grandi personalità, sicuramente di altissimo rango, ma pur sempre un incontro tra due autorevoli personalità. Andando nella città santa dello sciismo mondiale, tutto, la città dove è sepolto l’Imam Ali, al quale gli sciiti sono fedeli da secoli, il papa incontra una comunità. Non dico che incontra una comunità nel senso istituzionale della parola, incontra una comunità come fatto di fede. Per capirci vorrei paragonare il significato di Najaf per gli sciiti con quello di Gerusalemme per la Cristianità. Certo anche Roma è importante e per tutti i cristiani, ma per ogni cristiano Gerusalemme è un’altra cosa”.
Parlando di sciismo non si può non parlare del contrasto tra la grande scuola di Najaf e quella khomeinista usualmente assimilata con la scuola iraniana di Qom. Lo slogan khomeinista per cui “solo una buona società può formare buoni credenti” ha dato vita al sistema per cui vertici del clero possono bloccare l’eleggi del Parlamento. Ritenete che andando a Najaf il papa colga l’opportunità di incontrare e abbracciare lo sciismo che da mezzo secolo rifiuta questa teoria, detta del “governo del giureconsulto” che di fatto impone un sistema teocratico a chi la accetta?
Da giornalista occidentale pone un aspetto importante da sottolineare ma prestando attenzione alle parole: non si tratta di scegliere una scuola che non accetta la teoria khomeinista del governo del giureconsulto, quella che consente al Consiglio dei Guardiani di cancellare leggi parlamentari se ritenute non in linea con la legge religiosa islamica. Questa teoria è sopraggiunta, è una variante ma non è l’origine, la costante o la storia della tradizione sciita: è Najaf la grande tradizione universale sciita.
Veniamo al grande incontro inter-religioso di Ur, la città natale di Abramo. È certamente un evento epocale, con letture bibliche e coraniche relative ad Abramo, il padre comune. “Siete tutti fratelli”, dice il motto della visita. Ma tra tanti problemi, tante angustie nella vita, l’opinione pubblica potrà cogliere, capire cosa accadrà a Ur?
Il papa arriva nell’antica Mesopotamia come uomo di pace, come costruttore di pace. Se guardiamo il contesto in cui sta per giungere e il momento in cui arriverà siamo in grado di capire che si tratta di un vero e proprio kairòs? Nella mia Chiesa, quella ortodossa, prima che cominci la liturgia, il Diacono esclama “Kairos tou poiesai to Kyrio“, cioè “è tempo [kairos] che il Signore agisca”. Sì, io vedo in questa decisione di Francesco di visitare l’Iraq e di recarsi a Ur come un segno dello Spirito Santo. Il cammino di Abramo, seguendo la volontà di Dio, lo ha condotto da Ur alle coste del Mediterraneo. La cartina spirituale del cammino di Abramo ci indica, ci spiega la cartina geopolitica di oggi. Sia il cammino di Abramo che la realtà geopolitica fanno della Mesopotamia la vera “chiusura strategica”, o il “Gate”, del Mediterraneo. Le chiavi per la pace mediterranea sono lì. Sono due cartine diverse, certamente, ma che si accavallano perfettamente e divengono inseparabili. Senza pace nell’antica Mesopotamia non c’è pace nel Mediterraneo, e le parole “cittadini” e “fratelli” sono una parola sola, cioè la chiave di lettura e soluzione di tanti problemi. Questa è la prospettiva di pace che comporta e implica, infatti è incompatibile con identitarismi o progetti settari e miliziani. Questo lo vediamo in tutti i drammi mediterranei e lo indica proprio il senso della scelta di Abramo: i figli di Abramo, cioè ebrei, cristiani e musulmani, sanno che loro padre non ha fondato una religione, ha sentito Dio dirgli “fai così” e lui ha agito con “fede e fiducia”. Fede e fiducia nell’unico Dio di tutti i figli di Abramo, questo è il messaggio di Abramo, quello che va ricordato a tutti i suoi figli.
Vorrei concludere questo nostro breve colloquio tornando a quel punto che sembrava un auspicio del papa, venire in Libano rientrando dall’Iraq. Sembrava un desiderio, visitare il vostro Paese ormai sprofondato in una crisi che sembra la fine di un Paese che indicava un modello di pace, problematica ma pluralista. Sarebbe auspicabile una visita del papa nelle attuali condizioni del vostro Paese, con scontri di piazza, pandemia, collasso economico e una classe politica ormai ritenuta impresentabile da tutto il popolo?
Credo che il Vaticano abbia fatto bene a non prevedere una sosta sulla via di andata o di ritorno dall’Iraq. Una sosta cosa avrebbe fatto? Avrebbe offerto un puntello a un ceto politico screditato? Il Libano ha enorme bisogno del sostegno morale del papa, che servirebbe a tutti i libanesi con una visita per loro e a loro, nel nome del solo processo che può salvarci in questo momento terribile, imparare a vivere insieme.