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La svolta, i cristiani in oriente riletti da Civiltà Cattolica

Un articolo di Civiltà Cattolica rilegge la storia dei cristiani sotto i califfi alla vigilia del viaggio del papa in Iraq. Cadono le mitologie, si racconta un altro passato per immaginare un altro domani. L’approfondimento di Riccardo Cristiano

Nelle ore nelle quali la Santa Sede rendeva noto il programma del viaggio di Francesco in Iraq – un viaggio che appare evidentemente alle radici della fraternità negata, occultata ma reale, padre Giovanni Sale ha pubblicato su La Civiltà Cattolica un articolo che dà nuovo fondamento alla narrativa sulla storia del cristianesimo nei territori che furono dei Califfi e che dà basi reali ad un processo di reciproca comprensione nella sola prospettiva possibile per un domani migliore dell’oggi, la comune cittadinanza.

È la prospettiva che sorprendentemente il papa e l’imam della principale università teologica del mondo musulmano sunnita hanno posto alla base del loro documento congiunto sulla fratellanza, solennemente firmato ad Abu Dhabi due anni fa. Ma una narrativa che prescinde dai fatti e dalla storia ha cancellato la domanda fondamentale, “come è stato possibile?”, plasmando le nostre coscienze sulla base dell’assunto stalinista che “la carta sopporta tutto”. E invece le carte di padre Sale ci dicono che non c’è un vizio ontologico che impedisce il dialogo e la convivenza civile. E per accompagnarci in questo racconto avvincente parte da dove partire, cioè dalla situazione precedente l’emergere dell’Islam. Era un mondo cristiano in larga parte quel mondo. Andava tutto bene dunque per i cristiani? Non ebbe nessuna conseguenza il Concilio di Calcedonia che definì il credo cristiano sulla base della duplice natura di Cristo, a detrimento del monofisismo molto diffuso nell’Oriente cristiano di allora, che attribuisce a Cristo sola natura divina e da allora definito “eresia”?

“A partire dalla metà del V secolo, l’ecumene cristiana si divise in due diverse obbedienze: quella imperiale-calcedonese, cui facevano capo i due più importanti patriarcati (quello di Roma e quello di Costantinopoli), e quella non calcedonese, capeggiata dal patriarcato di Alessandria e in parte da quello di Antiochia. A quest’ultima obbedienza ancora oggi fanno capo la Chiesa copta, quella giacobita e quella armena gregoriana. Tale contrapposizione con il passare del tempo assunse una valenza politica, e sostanzialmente indicava il rifiuto, da parte delle cosiddette ‘periferie dell’Impero’, dell’influenza sempre crescente della Chiesa imperiale (già bizantina) di Costantinopoli. Fu in questo periodo di forte contrapposizione tra le diverse Chiese orientali, spesso accompagnata da persecuzioni cruente condotte dall’imperatore d’Oriente contro i monofisiti, che iniziò la conquista musulmana di diverse regioni cristiane, come l’Egitto, la Siria e la Persia. Sembra che in queste province di antica cristianità le popolazioni, e in parte anche la gerarchia, accolsero i nuovi conquistatori come liberatori, tanto più che i tributi che di solito venivano imposti da loro erano minori delle tasse che si pagavano ai bizantini. ‘L’iniziale inesperienza dei musulmani in tali faccende si rivelò un affare’. Non sorprende quindi che i “liberatori” sin dal principio trovassero le popolazioni autoctone disponibili a collaborare alla costruzione e al potenziamento del loro dominio”.

È in questo contesto che emerse la grande novità del califfato omayyade, sunnita, basato a Damasco, una grande città con tanta popolazione cristiana ed ebrea. Proprio loro divennero funzionari di alto livello del nuovo potere omayyade, motivo per cui molto hanno parlato dell’emergere di un Islam mediterraneo.

L’articolo di padre Sale indica la prima contestualizzazione decisiva: “Di fatto, con l’invasione araba, che in ogni caso non fu incruenta, i cristiani delle Chiese siro-egizio-mesopotamiche, ‘sfuggendo all’autorità del potere bizantino e passando sotto la tutela musulmana, cambiarono il loro status’. Da sudditi, quali erano sotto Costantinopoli, divennero ‘comunità tollerate’, prima dell’Impero musulmano omàyyade di Damasco (661-750) e poi di quello abbàside di Baghdad (750-1258). Lo status dei cristiani diviene quello dei dhimmi, vale a dire di individui che beneficiano, per il fatto di appartenere alla categoria coranica di ‘Genti del Libro’, della protezione fisica dei musulmani. Va tenuto presente che questo nuovo statuto proteggeva le comunità cristiane non soltanto dall’attacco dei musulmani, ma anche dalle aggressioni di altri popoli nemici”.

La seconda contestualizzazione che ciò ci consente è questa: alle minoranze religiose in Europa le cose a quel tempo andavano meglio o peggio? C’era una protezione o una persecuzione? Possiamo vedere così la storia seguire due parabole inverse: una lenta evoluzione in Europa, un’involuzione islamica. È così? L’autore non sviluppa questa “storia parallela” ma ci regala una preziosa sintesi per arrivare a capire molto dell’oggi islamico: “Insomma, i protetti, nello Stato musulmano, erano considerati cittadini di seconda categoria, ai quali veniva applicato uno statuto apertamente discriminatorio. Essi erano sottoposti, secondo la legge coranica, ad alcune ‘umiliazioni’ ed erano ‘tollerati’ in tale categoria, nella quale il Corano faceva rientrare i membri delle cosiddette ‘religioni del Libro’, cioè i cristiani, gli ebrei e i sabei. Al momento dell’occupazione dell’Impero sasànide, ossia persiano, furono considerati protetti anche gli zoroastriani. Una testimonianza dell’VIII secolo rivela che un comandante musulmano nel sud dell’India stipulò un trattato di protezione con i buddisti, assicurando l’intangibilità dei loro templi. ‘In fondo – è detto nella fonte – un tempio di Budda non è diverso dagli edifici religiosi dei cristiani e dai santuari del fuoco degli zoroastriani’. Successivamente furono stipulati trattati di protezione anche con i seguaci di altre religioni, come i mandei. Invece, i membri delle religioni non protette, come ad esempio gli odiati politeisti della penisola arabica (contro i quali il Profeta aveva dovuto combattere), non godevano di alcuna forma di tutela; erano quindi obbligati a convertirsi all’islam, altrimenti venivano sterminati. In quest’ultima categoria rientravano anche gli atei e i miscredenti. Questo spiega perché, sul piano religioso, l’islamismo radicale non riconosce la libertà di religione e di coscienza. Tutti i capi dei movimenti fondamentalisti – a iniziare da al-Qaeda – ancora oggi considerano i musulmani miscredenti e occidentalizzati i peggiori nemici dell’islam autentico, e in quanto tali essi possono essere uccisi”.

Questo punto è decisivo per due motivi: la storia poco conosciuta della protezione al di là dei confini dei monoteismi abramitici è una novità che va proprio nella direzione della fratellanza, mentre la deformazione “suprematista” è perfettamente ancorata alla deformazione dell’idea di miscredenza operata da al-Qaida e simili. Ma c’è un altro elemento da tenere presente e che padre Sale sottolinea con rarissimi acume e sintesi, riguarda il reciproco contributo, islamo-cristiano, al reciproco benessere: “Se è vero che la cultura araba ebbe il suo apogeo nell’XI e nel XII secolo, e che in tale periodo, trasmettendo all’Occidente ‘barbarizzato’ le opere di Aristotele e di altri autori greci, agevolò la prima rinascita culturale dell’Europa moderna, non va però dimenticato che ciò fu reso possibile grazie al lavoro di inculturazione svolto nei secoli precedenti dalla componente cristiana del mondo arabo”. Raramente una sintesi è così illuminante.

L’articolo prosegue in una ricostruzione decisiva, fino all’epoca ottomana, ai tentativi ottomani di riforma dello statuto giuridico dei singoli. Una pagina decisiva, purtroppo per il fallimento del tentativo di riforma. Ma padre Sale ha il merito di ricordare uno studioso controcorrente, per consentirci di capire. Come si governavano le minoranze protette e quindi oggettivamente di serie b nell’impero ottomano nei famosi millet, cosa erano questi millet? Questa la tesi citata: “Secondo Livio Missir di Lusignano, la struttura teocratica dell’Impero ottomano comportava che i millet fossero parte essenziale e costitutiva dello stesso Impero, ma non come uno Stato nello Stato. Tant’è vero, afferma lo studioso, che ai dhimmi (le minoranze protette) si riconosceva lo statuto di veri e propri ‘sudditi’ (al pari di quelli di fede musulmana), e i loro capi religiosi venivano considerati dall’amministrazione funzionari imperiali”. L’importante emerge anche se manca qualcosa ovviamente, le discriminazioni erano evidenti, ma qui c’è un punto che aiuta a capire perché le gerarchie dei patriarcati non vedevano di buon occhio la pari cittadinanza: le gerarchie ecclesiastiche avevano un potere di governo giuridico sulle loro comunità che le interessava. Ovviamente c’è molto altro nel racconto storico, e l’ottocentesco collegamento dei cristiani con le potenze europee, dagli intenti coloniali, non ha certo aiutato a imboccare un cammino felice, ma più infelice.

Non si può qui ricostruire tutto il racconto storico di padre Sale, ma è evidente che questa storiografia ci dà i fondamenti per riprendere il cammino verso la comune cittadinanza: “La modernità, mettendo al centro i diritti della persona, pone però nuove sfide anche ai cristiani mediorientali, e non soltanto ad essi. Ad esempio, la sfida se difendere innanzitutto i diritti delle comunità o quelli degli individui, vale a dire se si deve dare la preferenza al vecchio – ma ancora in vigore – sistema delle appartenenze comunitario- religiose, con tutte le differenze esistenti al suo interno, oppure privilegiare l’elemento «individualistico» e laico del diritto di cittadinanza, che non conosce differenze di razza, di etnia e di religione. La corretta applicazione di quest’ultimo elemento implica però, da parte dell’autorità pubblica, l’accettazione di due princìpi fondamentali, cari alle democrazie occidentali: quello della separazione dello Stato dalla religione, e quindi l’assunzione di una corretta laicità degli ordinamenti pubblici”. Questo è esattamente il cuore del documento sulla fratellanza firmato ad Abu Dhabi e che sarà certamente testo basilare nel viaggio del papa nel tormentato ma decisivo Iraq, la terra di mezzo non solo tra due fiumi, ma tra passato identitarista, deviazione suprematiste e futuro moderno.


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