Dal Mise di Giorgetti al ministero di Colao e Garofoli. Il governo Draghi deve fare i conti con la partita (geopolitica) del 5G. Gli Usa di Biden vogliono le aziende cinesi fuori e hanno già mosso le pedine. Ecco chi e come deciderà la strategia italiana
Tra i primi banchi di prova internazionali del governo Draghi c’è la partita per la rete 5G. È bastato un mese in carica al presidente americano Joe Biden e al suo team per scansare qualsiasi dubbio. La sicurezza della rete di ultima generazione degli alleati è una priorità assoluta. Dove per sicurezza si intende “messa al sicuro” dalle aziende cinesi accusate di spionaggio da parte del governo e le agenzie di intelligence Usa, su tutte Huawei e Zte.
Lo stato dell’arte
In Italia il giuramento del nuovo esecutivo coincide con il passaggio dalla fase sperimentale a quella dell’implementazione (ad esempio Tim e Vodafone, spiega un report di I-Com, hanno già siglato un accordo per coprire altre 100 città italiane entro il 2021).
Le frequenze radio sono state assegnate con largo anticipo, con un’asta record nel settembre del 2018 che ha fruttato alle casse dello Stato ben 6 miliardi e mezzo di euro. Mentre gli operatori iniziano a firmare i contratti di fornitura per la rete 5G procede la costruzione di un cordone di sicurezza da parte dello Stato e degli 007 italiani.
Cosa (non) ha fatto il Conte-bis
Il governo giallorosso ha stretto le maglie con il “decreto cyber”, primo atto politico del Conte-bis, e la costruzione del “perimetro nazionale di sicurezza cibernetica” sotto la supervisione del Dis, nonché con il rafforzamento del golden power sulle tlc. Ma la pandemia del coronavirus ha ritardato la tabella di marcia.
Il perimetro, cioè la rete di controlli dell’equipaggiamento tech affidati ai Cvcn (centri di valutazione e certificazione nazionale), non è ancora a metà strada. Sono stati pubblicati in Gazzetta due dpcm su quattro, e finora si conta una settantina di ingegneri e tecnici assunti. Oltre al plauso del Nis Cooperation Group dell’Ue, il perimetro cyber ha incassato l’endorsement degli apparati americani, confermato da un dispaccio del Dipartimento di Stato Usa pubblicato un mese fa da Formiche.net.
Chi decide? Giorgetti e gli altri ministeri-chiave
I tempi però stringono e il nuovo governo si troverà presto a dover spiegare all’alleato americano quale sia la linea sulla rete. Un’idea della “dottrina Draghi” sul 5G si può tracciare a partire dai ministeri chiave per la partita. Al cuore c’è il Mise, il ministero che ha assunto i tecnici dei Cvcn e che segue da vicino la sperimentazione, l’assegnazione dei bandi e il rilascio delle licenze, la costruzione delle antenne.
A prescindere dall’eventuale nomina di un sottosegretario con delega (come finora è stata la M5S Mirella Liuzzi), sarà il nuovo ministro e numero due della Lega Giancarlo Giorgetti a tirare le fila. Il vicesegretario del Carroccio conosce bene il mondo tlc e si è già occupato di 5G ai tempi di Palazzo Chigi, allora sottosegretario del Conte 1. In quel ruolo si è adoperato nell’estate del 2019 per rafforzare con un decreto il golden power sulla rete e venire incontro alle preoccupazioni americane contro le resistenze dei grillini, che alla fine hanno affossato il provvedimento. Sulla partecipazione dei fornitori cinesi ha sempre avuto le idee chiare, sposando in pieno la linea del Copasir (guidato da un suo amico e collega di partito, Raffaele Volpi) che ha chiesto di escluderli.
Garofoli e il golden power
Dopo il Mise c’è Palazzo Chigi. Lì risiede il gruppo di coordinamento per il golden power, i “poteri speciali” di intervento del governo per fermare contratti ritenuti lesivi della sicurezza. La figura di riferimento è il sottosegretario di Stato Roberto Garofoli, già presidente di sezione del Consiglio di Stato. Che della materia è un vero cultore: in un recente saggio si è espresso a favore di un rafforzamento del golden power e ha preso a riferimento il ben più rigido sistema di controllo degli investimenti americano in mano al Cfius (Committee on Foreing investments of the United States).
Ci si può dunque aspettare una verifica serrata da parte dei tecnici di Chigi, che già in questi mesi hanno bloccato contratti per il 5G sospetti, come quelli fra Fastweb e le cinesi Huawei e Zte, talvolta mettendo sullo stesso piano aziende cinesi e americane (come nel caso di Iliad, dove insieme a Huawei sono state colpite Cisco, Amphenol, Ciena, Commscope).
La dottrina Colao
Al terzo posto c’è il nuovo ministero per la Transizione digitale a Vittorio Colao. Un ministro che ha un lungo trascorso da top manager nel mondo della telefonia mobile, ex ceo di Vodafone. Già ai tempi della “task force” di Conte, Colao ha spiegato l’urgenza di accelerare sulla rete 5G, dove l’Italia sconta un grave ritardo. Ma in questi anni si è espresso anche sul lato della sicurezza.
In un articolo sul Corriere della Sera del febbraio 2019 il manager interveniva sul caso Huawei senza mezzi termini. Niente discriminazioni infondate, diceva allora Colao, ma non si può neanche far finta di niente. “Diverso e più fondamentale è invece il punto della vulnerabilità futura dei nostri Paesi — altamente digitalizzati da 5G e applicazioni IoT — se adottiamo tecnologia e software prodotti in un Paese con regole e standard democratici diversi dai nostri. Tali Paesi potrebbero usare questi poteri sui produttori di tecnologia come arma geopolitica. Questo è un rischio che i leader delle aziende debbono valutare seriamente”.
L’asse Di Maio-Guerini
A puntellare la linea italiana sulla rete 5G ci sono altri due ministri che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Draghi hanno confermato dal Conte-bis, agli Esteri Luigi Di Maio e alla Difesa Lorenzo Guerini. In un anno alla guida della Farnesina Di Maio ha abbandonato alcuni vecchi oltranzismi tipici del Movimento Cinque Stelle e maturato una posizione più coerente con la collocazione Nato dell’Italia. Non ha mai parlato di espulsione delle aziende cinesi ma, in un colloquio con l’omologo cinese Wang Yi a Roma ad agosto, ha chiarito la posta in gioco: sì agli investimenti nella rete purché in linea “con gli standard di sicurezza nazionale e in relazione alla collocazione euro-atlantica del nostro Paese”. Guerini è stato tra i primi ministri dello scorso governo a chiedere di dare seguito al rapporto del Copasir (avviato proprio durante la sua presidenza del comitato, prima di Volpi). “Sappiamo da che parte stare”, ha detto a novembre. C’è anche e soprattutto la sua firma sui paletti posti dal governo a difesa del 5G. Come le prescrizioni di Palazzo Chigi che a luglio hanno stretto i controlli sull’equipaggiamento degli operatori.
La strategia di Biden
La nuova amministrazione americana ha iniziato a muovere le pedine. I primi passi sulla rete 5G segnalano una linea di sostanziale continuità con l’era Trump. Il fondatore di Huawei Ren Zhengfei ha detto di aspettarsi una chiamata da Biden. Dalla Casa Bianca però è arrivata una doccia fredda, Huawei e Zte sono “una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e dei nostri alleati”, ha chiarito il portavoce Jen Psaki. Le nomine dei posti-chiave per la partita diradano gli ultimi dubbi. Il programma “Clean networks” lanciato dal Dipartimento di Stato di Mike Pompeo per chiedere agli alleati di eliminare i fornitori cinesi dal 5G proseguirà con il segretario Anthony Blinken.
Il programma Clean networks
Il coordinamento è stato affidato a Melanie Hart, direttrice della China policy del Center for American Progress, influente think tank progressista fondato da John Podesta. In un paper di ottobre, Hart ha delineato la strategia. I fornitori cinesi saranno combattuti sul piano del “mercato”, per annullare i vantaggi derivanti dalla mole di sussidi di Stato.
Dunque le priorità. “Formare una coalizione di nazioni per determinare come i sussidi diretti e indiretti di Pechino danneggiano il mercato globale”. Poi una “coalizione di agenzie per l’export” per supportare i “fornitori che vogliono competere contro Huawei” (come le europee Ericsson e Nokia). Sfidare il monopolio cinese nei forum internazionali (come l’Itu, International trade union). Aderire all’O-Ran Alliance, cioè la lobby industriale che vuole risolvere il “problema cinese” con il passaggio a un mercato aperto, modulare, con interfaccia e ran condivise per togliere ai fornitori di Pechino il ruolo predominante di mercato. In Italia c’è chi si è mossa per tempo. Tim, che sotto la guida di Luigi Gubitosi ha già dato forfait a Huawei per le gare 5G in Italia e Brasile, ha aderito all’alleanza con un memorandum.