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Draghi, l’Europa e la sovranità nazionale. La versione di Ippolito

Non nascondiamolo: di irreversibile vi è attualmente la concorrenza tra le diverse politiche nazionali in seno all’Europa, la quale si accentuerà con l’auspicata ripresa economica che attende tutti dopo la fine della mortifera pandemia che flagella il mondo intero. L’analisi di Benedetto Ippolito

Con la fiducia ottenuta ieri al Senato, e con il favore di oggi alla Camera, il governo di Mario Draghi ha completato l’iter istituzionale, potendo essere da domani pienamente in carica.

È pressoché inutile tessere le lodi di una soluzione positiva e necessaria che gode del favore quasi totale del Parlamento. La situazione reale è drammatica, e la soluzione radicale è stata imposta dagli eventi stessi.

È invece utile entrare almeno provvisoriamente, in attesa magari di farlo concretamente in seguito, sui temi e le prospettive esposte nel primo vero debutto pubblico e programmatico del presidente del Consiglio, quello del discorso di ieri.

Innanzitutto, l’appello di Draghi al governo della Repubblica. Per capirne il senso è importante la citazione invocata di Cavour, il quale riteneva che il rafforzamento dell’autorità derivasse dalla capacità di riformare le istituzioni.

Sicuramente è un’ispirazione considerevole, in specie per un esecutivo che di riforme dovrebbe farle molte, avendo oltretutto davanti a sé un’eccezionale crisi pandemica da risolvere in una situazione di totale destrutturazione della nostra economia. In ogni caso vero è che riformare rafforza l’autorità, anche se purtroppo non sempre migliora le cose, come ben sappiamo anche soltanto ricordando le vicende dell’allora nascente Regno di Italia cui Cavour si riferiva.

Fondamentale, in questo senso, è stato il richiamo di Draghi alla comune cittadinanza come asse dell’appartenenza repubblicana. Vero. Lo spirito repubblicano è originariamente tale, vale a dire legato alla partecipazione comune dei cittadini come valore che conferisce allo Stato il suo carattere democratico. D’altronde è stato anche giusto mettere in risalto da parte sua il legame intergenerazionale come miglior antidoto all’egoismo sociale. Già Isidoro di Siviglia, alla fine del VI secolo, parlava di “comodità privata” come danno permanente per una sana comunità.

Da questo punto di vista l’inappuntabile ragionamento di Draghi è incontrovertibile, sebbene forse nasconda un tantino il problema vero delle odierne democrazie europee, segnate dalla debolezza delle nazioni, dallo sfaldamento delle identità popolari e dalla sensazione, specialmente diffusa tra gli italiani, che il senso repubblicano si sia perduto non tanto per l’individualismo esasperato quanto piuttosto per la perdita di potere dei cittadini stessi, delle loro comunità, dei loro Stati, a vantaggio di coloro che li governano da lontano e a livello globale.

È qui forse che il discorso di Draghi giunge al nodo politicamente più rilevante e forse anche più problematico. Egli dice: “Senza l’Italia non c’è Europa. Ma fuori dall’Italia, non c’è nemmeno l’Italia. Non c’è sovranità nella solitudine, c’è solo l’oblio”. È bene riflettere un po’ su questo.

L’identità dell’Europa risiede in un passato molto remoto, che ha le sue radici nel primo millennio. Il male attuale, perciò, non è la solitudine nazionalista, che non vi è mai stata e mai vi sarà in assoluto, e men che meno l’esistenza dell’Europa, che c’è da sempre, ma il valore che deve acquisire la sua unione politica nel quadro delle premesse repubblicane prima richiamate. La sovranità non si può declinare in universale e nemmeno definire in modo esclusivamente particolare, ma ha senso soltanto come un rapporto dialettico tra queste due istanze, l’una nazionale e l’altra internazionale. Il problema è che tale relazione ha compiuto nei quindici anni che ci precedono metamorfosi per nulla positive che sono al fondo della contestazione che sono emerse nel profondo delle nazioni e sfociate poi nei populismi antieuropeisti.

Se l’Europa è irreversibile, come Draghi dice, lo è perché non è una identità religiosa e culturale da acquisire su di un piano diverso dalle singole specificità nazionali e personali dei cittadini. Ragionare invece come se tale irreversibilità implicasse una conversione degli Stati, un indebolimento della loro sovranità, a vantaggio di quella di un Superstato ideale, porta a definire l’Unione come una maxi-repubblica molto autoritaria e poco democratica, sicuramente ben diversa dagli auspici di tutti noi, oltre che dei suoi padri fondatori.

Il punto è proprio il compito che le nazioni si aspettano da chi li governa. Il rafforzamento degli Stati è il punto cruciale in questa ottica, e si connette alla crescita dei poteri nazionali e al risveglio di un’economia più libera, più competitiva e più attiva, che trovi condizioni di solidarietà e salvaguardia locale anche in un quadro continentale. Non nascondiamoci la cosa: di irreversibile vi è attualmente la concorrenza tra le diverse politiche nazionali in seno all’Europa, la quale si accentuerà con l’auspicata ripresa economica che attende tutti dopo la fine della mortifera pandemia che flagella il mondo intero.

Domani vi sarà bisogno di sempre più democrazia nazionale e di sempre maggiore forza del nostro Stato per difendere patrimoni, risparmi, sviluppo e competitività degli italiani nel quadro agguerrito di istituzioni europee che sono comunque organismi di controllo e di indirizzo delle diverse sovranità: istituzioni europee purtroppo sempre molto sensibili al peso di alcune nazioni e alla debolezza di altre.

Adesso, ad ogni buon conto, non è il momento delle definizioni politologiche, ma della gestione preliminare delle vaccinazioni e del sostegno assoluto alle nostre imprese, pubbliche e private. Poi vi sarà il tempo di misurarci con la nuova Europa e con il valore che in essa dovranno avere le repubbliche nazionali nel quadro della loro interna crescita democratica. Ora non è il momento, ma domani l’Unione Europea dovrà cambiare profondamente, crescendo in sussidiarietà attraverso organismi di governo nei quali la forza degli Stati sia riconosciuta e la potenza dell’Italia espressa in modo conforme alle nostre finalità repubblicane da politici degni di questo nome.

Dello stesso tenore, infine, è il ragionamento green. Sicuramente il Recovery chiede ed impone una conversione ecologica e un finanziamento pubblico a riforme che vadano in questo senso. Draghi è garanzia che questo obiettivo sarà realizzato, senza le solite inefficienze ed incompetenze, per il bene esclusivo del popolo italiano. Questo è probabile che avvenga, d’altronde, sebbene per procedere verso tale riconversione sarà indispensabile che le nostre aziende sopravvivano, che le nostre Università possano formare bene i giovani, perché altrimenti di verde ci saranno soltanto i campi incolti o l’edera che cresce su atenei e cantieri abbandonati.

L’aspetto più positivo di questa esordiente stagione politica è lo stile del presidente del Consiglio: mite, modesto, competente, sobrio. Come non sottoscrivere ed apprezzare questo bagno di umiltà fatto da chi avrebbe tanti motivi per essere superbo e disinteressato al bene comune.

I restanti problemi politici invece sono e restano sul tavolo: sono solo momentaneamente sospesi. Perciò la migliore linea di un governo politico come questo, che ha tante continuità con il passato, è risolvere con la cura necessaria e con le capacità indubbie che Draghi possiede i problemi eccezionali che ci attanagliano, utilizzando la straordinaria competenza personale come motore dinamico e veloce per rimuovere le incompetenze accumulate e i permanenti parassitismi, facendo bene e subito ciò che deve essere fatto.

Il resto delle riforme ora non conta. E se anche contasse per qualcuno, meglio sarebbe per Draghi rimandare tali velleità a quando i cittadini torneranno a dover scegliere tra visioni repubblicane contrapposte e inconciliabili.


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