La pandemia riscrive leggi globali, mercati ed equilibri internazionali. Ma il progetto europeo ha ancora il suo senso e la risposta comunitaria al Covid lo dimostra. Ma occhio al consenso. Scritti e ragionamenti nell’ultimo numero della Rivista di Politica Economica del Centro Studi di Confindustria
Europa è ed Europa sarà. Diversa, forse, ma pur sempre un grande mercato da mezzo miliardo di individui. Resta da capire che tipo di Europa dobbiamo aspettarci da qui a pochi anni. Stefano Manzocchi, economista e direttore del Centro Studi di Confindustria, ha provato a tracciarne l’identikit nella Rivista di Politica Economica del Centro studi, che per questo mese ha scelto un titolo che dice molto: Traiettorie europee, sfide per l’Italia. Manzocchi, nella sua lunga introduzione, cita i diversi autori degli articoli che compongono il numero.
L’EUROPA DINNANZI AL COVID
“L’identità si costruisce dalle fondamenta materiali oltre che ideali, e sotto questo profilo il 2020 ha costituito un crocevia per le politiche macroeconomiche dell’Unione. Come sostiene Francesco Saraceno, dopo qualche tentennamento e con qualche residua venatura di timidezza, l’Europa è sembrata decisa a prendere in mano il suo destino economico, soprattutto dopo la crisi del Covid-19″, scrive il capo economista di Confindustria. “Ancora di più, ha affermato un principio di condivisione del rischio e l’estensione della sfera del suo operare (all’ambito sanitario, ma non solo) e dell’arsenale dei suoi strumenti.”
A detta degli Industriali, l’Unione europea ha preso di petto la pandemia ” in prima battuta garantendo lo sforzo fiscale messo in campo dai governi dei Paesi Membri, con la sospensione del Patto di Stabilità, il Temporary Framework sugli aiuti di stato e le operazioni della Bce. Lo ha poi fatto con il salto quantico del piano Next Generation Eu, destinando risorse importanti, e per la prima volta reperite anche mediante un indebitamento comune, per riparare ai danni di una emergenza senza precedenti e modellare il futuro economico del Continente. Se questo costituirà davvero il preambolo di un momento costituente storico, il cosiddetto momento hamiltoniano, lo diranno il successo del piano e gli sviluppi sociali e politici del Continente nei prossimi anni”.
LO SCUDO DELLA BCE
Marina Brogi e Valentina Lagasio, prosegue Manzocchi, analizzano la risposta europea all’emergenza del Covid-19 sul versante delle politiche monetaria e bancaria. La prima ha costituito da subito il pilastro complementare alle azioni della Commissione europea, anche se la presidente della Bce Lagarde ha chiarito correttamente come la politica monetaria comune da sola fosse insufficiente per rispondere all’impatto della pandemia.
“In una condizione di tassi di riferimento tendenzialmente nulli o negativi, la Banca Centrale ha agito, anzitutto, sul versante delle operazioni di acquisto di attività e di rifinanziamento, con nuovi programmi e l’estensione di quelli già in essere. Altrettanto tempestive sono state le mosse sul versante regolamentare delle politiche prudenziali, con la conseguenza di liberare ingenti risorse patrimoniali dai bilanci degli intermediari e di introdurre misure inedite come
la raccomandazione a sospendere l’erogazione dei dividendi e a moderare le componenti variabili dei compensi”.
E “il risultato complessivo è quello di politiche finanziarie estremamente accomodanti, che possono contribuire ad amplificare l’impatto delle politiche fiscali se la propensione per la liquidità non diventa eccessiva; ma che al contempo comprimono i rendimenti in diversi segmenti dei mercati finanziari. I rischi di moral hazard e di bolle speculative sono inevitabilmente aumentati in queste circostanze. Sin da ora, ed in prospettiva, la politica monetaria e bancaria europea si dovrà confrontare”.
L’EUROPA COMMERCIALE
Nell’analisi di Manzocchi c’è anche spazio per la questione commerciale, non certo immune dagli effetti della pandemia. “Nonostante le turbolenze geopolitiche, e il conflitto tecnologico e commerciale tra le due sponde del Pacifico – ed in misura e modalità diverse dell’Atlantico – il sistema globale di scambi e produzione sembra aver retto all’impatto della pandemia. La globalizzazione, come sempre nella storia, cambia le sue forme, stavolta nella direzione di un possibile approfondimento relativo dei legami continentali rispetto a quelli di lunga distanza. Si tratterebbe, tuttavia, di una
riorganizzazione che non mina per adesso la validità del sistema di produzione delle cosiddette catene globali del valore, che ha interrotto la sua espansione ma si è dimostrato resistente nel corso della crisi del Covid-19”.
“Come sostengono nel loro saggio Giorgia Giovannetti, Michele Mancini, Enrico Marvasi e Giulio Vannelli, la correlazione negativa tra partecipazione alle catene internazionali del valore e crescita economica che si era riscontrata durante la crisi finanziaria, risulta molto inferiore nella crisi attuale, anche se segnali di stress lungo le filiere globali non mancano. Il motivo principale è che la pandemia ha colpito più duramente rispetto alla crisi finanziaria alcuni settori dei servizi che richiedono interazioni di prossimità e sono poco integrati su scala globale. I comparti più presenti negli scambi e nella creazione di valore aggiunto in piattaforme internazionali, in primo luogo l’industria e la finanza, hanno retto meglio e non si è registrato per ora un impatto particolarmente negativo in termini di globalizzazione”.
E c’è anche la questione tecnologica. Come scrive Marta Dassù nel saggio che apre il volume, “il grande gioco tra le potenze del XXI secolo si orienta sempre più sulla competizione tecnologica e sul controllo della tecnica e della sicurezza, a differenza di quello tradizionale connesso principalmente al controllo territoriale, delle materie prime e dei mercati”.
D’altronde la competizione si indirizza verso un confronto di tecno-autoritarismo contro tecno-democrazia in cui “l’esito della guerra fredda hi-tech potrebbe essere questo, senza un vincitore globale”.
CREDERE (O NON CREDERE) NELL’EUROPA?
Alla fine però, resta una domanda. Si può credere in questa Europa? “La ripresa del consenso per il progetto dell’Unione europea e per le istituzioni comunitarie, che il 2020 ci lascia in eredità, non può essere considerata strutturale, soprattutto a fronte di una progressiva caduta della reputazione che questi hanno registrato nel decennio scorso, come scrive Gianmarco Ottaviano nel saggio che indaga le motivazioni profonde del disamore per l’esperimento europeo”.
Tra queste, “la firma del Trattato di Maastricht (1992), l’ingresso della Cina nel Wto (2001), l’allargamento ad Est dell’Unione europea tra il 2004 ed il 2007. Come conseguenza, si è assistito ad una forte polarizzazione dell’attività economica all’interno della Ue trainata, da un lato, dal “turbocapitalismo finanziario” che ha arricchito prevalentemente i grandi centri urbani specializzati nei servizi avanzati e, dall’altro, dalla riorganizzazione della manifattura che ha spiazzato intere filiere e territori favorendone altri”.