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Recovery Plan, il peso dell’eredità di Conte e le priorità per Draghi

Una delle prime sfide del governo Draghi sarà individuare una governance efficace, oltre all’elaborazione di contenuti e progetti più operativi per il Recovery plan da presentare all’Europa. L’analisi di Luigi Tivelli

Ovviamente tra i primissimi, se non il primo dossier cui deve mettere mano il governo Draghi, c’è il Recovery Plan. Vale la pena a questo proposito fare il punto sullo stato dell’arte e sull’eredità lasciata dal governo Conte.

La bozza approvata dal governo il 13 Gennaio 2021 di Pnrr, pubblicata in contemporanea con l’apertura della crisi di governo, ha trovato un’accoglienza abbastanza fredda fra gli addetti ai lavori e gli osservatori, oltre alle già ricordate critiche del presidente di Confindustria.

Anche a Bruxelles e nelle capitali europee l’accoglienza non è stata delle migliori. Basti ricordare per tutti l’autorevole Lars Feld, capo del team di saggi sull’economia della cancelliera Angela Merkel che in un’intervista pubblicata su Repubblica, ha precisato di non aver finito di leggere per intero il Recovery Plan italiano ma ha assunto una posizione abbastanza critica. D’altronde in quei giorni da Bruxelles e dalle capitali europee si osservava con preoccupazione, e come fattore di debolezza del quadro politico ed economico italiano, l’evoluzione della crisi di governo, che era un punto di debolezza in più sull’affidabilità del Paese.

Già c’era stata in precedenza l’intervista al Commissario agli affari economici Paolo Gentiloni a Repubblica, normalmente abbastanza sobrio e moderato che, come in parte ho già ricordato, aveva sollevato il timore che l’Italia non riuscisse a rispettare le rigide sequenze semestrali di attuazioni del piano a causa di ostacoli burocratici e legislativi che possono essere superati solo con provvedimenti di emergenza che il Parlamento è lungi dall’aver iniziato a discutere, e questa preoccupazione sulle riforme strutturali a Bruxelles, a Parigi, a Berlino si somma a quello di emergenza sull’occupazione che scoppierà in Italia quando finiranno le casse integrazioni.

Anche i progetti chiave, come gli incentivi agli investimenti nel digitale si scontrano con la lentezza nel realizzare le necessarie infrastrutture e con i problemi di adattamento nelle piccole medie imprese, così come non sarà facile implementare in termini efficaci la “rivoluzione verde”.

Quanto al punto di partenza che riguarda le riforme, in relazione a quella cruciale della Pubblica amministrazione si indicano elementi contraddittori: da un lato digitalizzazione e semplificazione, dall’altro massiccia assunzione di personale, mentre le prime dovrebbero rendere quasi inutili le seconde, salvo invece un necessario ricambio generazionale per disporre di risorse con una formazione più aggiornata e salvo mettere in opera una seria azione di deregolamentazione.

L’unica riforma su cui il Pnrr fornisce elementi più analitici è quella della Giustizia, orientata all’efficienza organizzativa integrata dal reclutamento di nuove  risorse umane, alla semplificazione dei procedimenti giudiziari e alla loro velocizzazione, tramite l’accorciamento dei tempi e del carico dei giudizi, anche se non vi sono indicazioni sull’accorciamento dei tempi per le procedure fallimentari, né sulla separazione delle carriere dei magistrati e tanto meno sulla responsabilizzazione dei giudici per il loro operato.

Per ciò che concerne infine il lavoro, si punta sugli investimenti nella formazione per migliorare l’occupabilità del lavoratore, sulle politiche attive del lavoro che sin qui sono state quasi fallimentari. La grande assente tra le riforme è il rilancio di una seria politica della concorrenza, che sarebbe più che mai necessaria (magari accompagnata anche da adeguate forme di privatizzazioni) visto che il 2020, grazie anche a un uso eccessivo delle politiche di risposta al Covid-19 è stato l’anno del grande rilancio di una forma di nuovo statalismo e di concentrazione dei poteri nella mano pubblica.

Il commissario europeo agli affari economici Paolo Gentiloni, sempre sobrio nelle sue definizioni e ovviamente sulla base di una certa apertura e disponibilità verso ciò che proviene dall’Italia, ha definito l’ultima bozza del Pnrr una “buona base”, ma anche ai sensi delle nuove linee guida pubblicate dalla Commissione europea il 22 gennaio 2021, non solo trova conferma quello che ho scritto sin qui ma emerge che il lavoro da svolgere è davvero ancora molto complesso.

Gli Stati che intendono usufruire dei fondi dovranno infatti fornire informazioni molto dettagliate sugli investimenti e sulle riforme da implementare, spiegando chi fa cosa, come lo fa, quando lo fa e quanto costa. Sarà necessario anche per le riforme dimostrare gli effetti attesi di queste misure, non solo di uno specifico pilastro, (ad esempio la transizione verde o quella digitale oppure la lotta alle disuguaglianze di genere), ma anche sul sistema economico nel suo insieme. Spetterà ai governi, a cominciare da quello italiano, inoltre, illustrare come i provvedimenti presi potranno contribuire a “rendere l’Unione più resiliente”. Ciò significa che Bruxelles chiede ai beneficiari degli aiuti di avere una visione europea, ben più ampia di quella nazionale. Si conferma poi che gli esborsi da parte europea avverranno due volte l’anno, al raggiungimento degli obiettivi sia qualitativi che quantitativi.

L’ultima bozza italiana è sostanzialmente priva di tutti questi dettagli, a cominciare, come già rilevato, da quelli sulle riforme: che si tratti di giustizia, Pubblica amministrazione, fisco o mercato del lavoro. Riforme che nel testo sin qui inviato a Bruxelles sono sostanzialmente oggetto di dichiarazioni di intenti e al massimo semplicemente abbozzate. A Bruxelles quindi non sono in grado di valutare come e quando saranno approvate e quindi finanziate con le risorse europee.

Si apre quindi un lavoro importante e significativo da fare da qui fino alla presentazione definitiva del Pnrr. È da sperare che uno dei limiti più gravi della gestione del Recovery Plan da parte del governo Conte (da cui nacque sostanzialmente l’avvio della crisi da parte di Renzi) era l’assenza di una struttura di governance del Recovery Plan, causa di conflitti di competenza sotterranei o espliciti mai governati dall’ex premier. Individuazione di una governance efficace, oltre all’elaborazione di contenuti e progetti più operativi sarà una delle prime sfide del governo Draghi.

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