Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio ricorda commosso l’ambasciatore Attanasio ucciso in Congo insieme al carabiniere Iacovacci, “un esempio della diplomazia italiana nel mondo”. Ma quell’Africa non è così lontana da noi, e il mondo civilizzato ha le sue colpe. Ecco come l’Europa può cambiare paradigma
Un fiume di cordoglio ha accolto la notizia del barbaro assassinio in Congo dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, 43 anni, e del carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci, 30 anni. L’assalto al convoglio dell’Onu vicino a Goma da parte di un gruppo di miliziani ha ricordato all’opinione pubblica che c’è un’Italia che lavora in Africa e per l’Africa. Lontano dai riflettori della cronaca e un po’ dimenticata dai palazzi romani.
“Al di là delle giuste e comprensibili reazioni di commozione, ho notato una scarsa conoscenza dell’Africa in Italia – dice a Formiche.net Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Da quando ha posato la prima pietra della comunità nel 1968, Riccardi ha fatto dell’Africa una vera e propria missione. Tanto che oggi, nel “Continente nero”, Sant’Egidio è molto più di una comunità cristiana, è una macchina della diplomazia di pace. Dal Mozambico al Sudan, dalla Nigeria al Congo fino alla lotta all’Aids e alla difesa dei bambini con i programmi “DREAM” e “Bravo!”, da quarant’anni lascia il segno. Anche per questo la commozione è doppia di fronte al vile attacco di lunedì.
“Attanasio conosceva bene l’Africa, era un vero ambasciatore italiano, nell’accezione che ha fatto amare gli italiani nel mondo. Un modello di diplomatico che contrasta con il provincialismo decadente tipico del nostro Paese. Aveva capito che dal futuro dell’Africa non dipende solo qualche affare ma il destino dell’Europa. Stimato dalla politica congolese e dalle organizzazioni umanitarie, si era messo al servizio della comunità nella regione del Kivu”. Una zona, spiega Riccardi, che gode della fama di “buco nero del Congo”. “Per la presenza di milizie legate agli interessi più diversi, per i ruandesi hutu, per la guerriglia e il banditismo. Ma soprattutto per l’assenza dello Stato”.
Eppure archiviare la strage nella foresta congolese come un fatto lontano, di un popolo all’ombra della civiltà occidentale, sarebbe troppo facile. “Quello che sta succedendo in Congo, in Kivu, in Africa, è davvero la retroguardia della civiltà?”, si chiede Riccardi. “Sono davvero le stesse zone geografiche che gli antichi romani segnavano sulla cartina con la scritta Hic sunt leones?”.
In verità, prosegue, sono più vicine di quanto pensiamo. E il cosiddetto “mondo civilizzato” ha le sue responsabilità. “Come scrive Mario Giro nel suo libro “Guerre nere” (Guerini), l’Africa sta diventando ‘il laboratorio di una globalizzazione senza misericordia né benevolenza’. Il primato dell’interesse economico sull’uomo, sulla preservazione della comunità va di pari passo con il suicidio, o l’assassinio dello Stato. Penso alle popolazioni spostate per far spazio allo sfruttamento delle materie prime, dal coltan al cobalto, alla natura distrutta”.
Ecco che allora la globalizzazione “ha introdotto nella già fragile situazione africana elementi esplosivi, la diffusione delle armi, la conflittualità, la primazia del denaro”. Oltre il cordoglio, oltre lo sdegno di fronte all’orrore, c’è allora un’Europa, un mondo “civile” che deve chiedersi: “È solo colpa degli africani?”. Riccardi si ferma. “No, ovviamente è più complesso. Gli africani cooperano ormai all’espressione di interessi globali che sono occidentali ma anche cinesi, russi, indiani. Allora di fronte a questa globalizzazione senza misericordia, senza pietà, mi chiedo: l’Africa è la retroguardia o il futuro del mondo?”.
Troppa retorica ammanta il pensiero europeo sull’Africa, che si riduce così a un wishful thinking privo di com-passione, e coraggio. “Per far sì che il sacrificio dell’ambasciatore e del carabiniere non sia vano, non vedo che una strada – riflette Riccardi – che l’Europa torni ad essere un soggetto politico, capace di interpretare un’altra globalizzazione, di costruire un altro rapporto con l’Africa. Il grande poeta e presidente senegalese Leopold Senghor parlava di Eurafrica come di un’alleanza necessaria per l’equilibrio del mondo. Siamo forse lontani da quelle utopie. Ma come Italia e come Europa abbiamo il dovere di riprendere una politica più attiva nel contesto africano, per la costruzione di uno Stato non corrotto, rispettoso dei diritti umani e geloso della sua sovranità. È questa l’unica garanzia per una globalizzazione non selvaggia in cui gli Stati si facciano responsabili del bene comune delle popolazioni”.