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Ilva e acciaio verde. A chi spetta la politica industriale in Italia?

Lo spegnimento dell’area a caldo in tempi tecnici incompatibili con la salvaguardia degli impianti provocherebbe un danno devastante per le sue imponenti apparecchiature e segnerebbero di fatto la paralisi produttiva dell’intero siderurgico. Ma questo i giudici lo sanno?

Ancora una volta e dall’ormai remoto 26 luglio 2012, giorno del sequestro dell’area a caldo, allora senza facoltà d’uso, la situazione dello stabilimento siderurgico di Taranto, classificato per legge di “interesse strategico nazionale”, si sta facendo oltremodo delicata e meriterebbe, a nostro avviso, da tutte le parti in causa, nessuna esclusa, una piena assunzione di responsabilità circa il futuro del sito e di tutti i comparti che gravitano su di esso.

Una premessa è tuttavia necessaria: il compendio impiantistico della fabbrica, con le altre del gruppo Ilva localizzate al Nord, è tuttora di proprietà dello Stato, affidato in locazione propedeutica all’acquisto ad AmInvestco Italy, controllata dalla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, primo produttore di acciaio al mondo. Si è pienamente consapevoli allora di cosa significhi stabilire lo spegnimento di un’area a caldo di un sito tuttora di proprietà pubblica?

Ci si rende pienamente conto nell’ambito della giustizia amministrativa che sue statuizioni che sottovalutino i tempi tecnici di talune decisioni potrebbero recare grave nocumento ad un bene la cui alienazione peraltro concorrerà a ristorare, sia pure in minima parte, i tantissimi creditori che si sono insinuati nello stato passivo della Amministrazione straordinaria? Può, in altri termini, la sentenza di un organo statale, al di là delle intenzioni di chi la emetta, finire col recare danno ad un altro organo dello Stato? Lo spegnimento dell’area a caldo in tempi tecnici incompatibili con la salvaguardia degli impianti provocherebbe – come sanno tutti coloro che conoscano in maniera approfondita e non dilettantistica il funzionamento di un ciclo integrale – un danno devastante per le sue imponenti apparecchiature e segnerebbero di fatto la paralisi produttiva dell’intero siderurgico.

Ne scaturirebbero effetti drammatici sotto il profilo economico, occupazionale ed ambientale che coinvolgerebbero a catena movimentazioni portuali di materie prime e beni finiti, aziende dell’indotto di vari livelli, trasporti su gomma, banche creditrici di lavoratori con mutui, ristorazione aziendale, istituzioni di ricerca, vasti settori dell’economia cittadina e provinciale in cui si riversa la spesa di stipendi e salari di operai, tecnici, quadri e dirigenti del siderurgico e delle imprese ad esso collegate. Gli effetti sarebbero drammatici, lo ripetiamo, ed è bene che tutti lo sappiano.

Nel frattempo, chi ordinerà più una tonnellata di coils ad un sito di cui si continua a porre in discussione la stessa esistenza? Ma qualcuno afferma che la fabbrica potrebbe diventare un grande laminatoio? Non scherziamo, per cortesia, con affermazioni prive di ogni fondamento tecnico-economico. Ed è singolare poi – ed è una considerazioni avanzata da diversi attenti osservatori – che in un momento in cui lo Stato, tramite Invitalia, e Arcelor hanno raggiunto un accordo (nient’affatto scontato) per l’ingresso della finanziaria pubblica nel capitale della società di gestione – con ciò riportando il capitale pubblico nel gruppo Ilva dopo la sua privatizzazione avvenuta nella primavera del 1995 – si emettano sentenze che, nei fatti, potrebbero rimettere in discussione l’intero processo, che peraltro dal 2022 vedrebbe lo Stato tornare ad essere azionista di maggioranza della società.

Ma ora è giunto il momento che il nuovo governo e l’intero parlamento decidano il destino di quella che è tuttora, piaccia o non piaccia, la più grande fabbrica manifatturiera del Paese con i suoi 8.206 addetti diretti, cui sono collegati i siti di Genova, Novi Ligure e altri minori. Il piano industriale messo a punto da Invitalia e Arcelor ha bisogno, a nostro avviso, di ulteriori articolazioni sotto il profilo degli investimenti e soprattutto occupazionale; l’acciaio green è possibile, Taranto può e deve diventare la capitale europea della sua produzione, grandi aziende come Danieli, Saipem e Leonardo hanno sottoscritto un protocollo di intesa finalizzato a mettere a punto tecnologie e processi carbon free e in grado di abbattere le emissioni nocive. Altri grandi gruppi come Tenaris, Snam ed Edison stanno studiando congiuntamente la produzione di idrogeno verde a costi accessibili per impiegarlo in siderurgia.

Ma queste innovazioni, applicabili a Taranto, non sono ancora dietro l’angolo: v’è bisogno di tempi tecnici. per realizzarle e renderle fruibili per produzioni a costi competitivi. Allora, si vogliono accordare questi tempi tecnici ad una società che si accinge ad essere controllata nuovamente dallo Stato? O prevarrà ancora qualche sussulto di furia anti-industrialista che purtroppo sembra serpeggiare in diversi ambienti ? Un’ultima domanda ai lettori e ai decisori politici: chi deve fare politica industriale nel nostro Paese, il governo, i ministeri e il Parlamento eletto dal popolo sovrano o Istituzioni giudiziarie, penali o amministrative che siano? Lo si stabilisca nelle sedi competenti e soprattutto lo si comunichi agli investitori esteri che devono decidere consapevolmente se continuare ad investire in Italia o meno.

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