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Dall’anti-elitismo al governo delle élite. L’analisi di Tivelli

Dopo il fallimento di un primo governo populista e di un secondo governo semi populista, grazie alla tempestiva e intelligente mossa di un Presidente della Repubblica di piena e sana impronta democratica, si affida la formazione del governo al miglior rappresentante delle élite italiane ed europee e per fortuna sembra che si squagli di colpo un certo anti-elitismo e tutti capiscono che non si può non salire sul carro del vincitore. L’analisi di Luigi Tivelli

La prima accoglienza dell’incarico a Mario Draghi è ovviamente molto positiva da parte del mondo economico, finanziario e imprenditoriale, dal mercato borsistico ma sembra un po’ in salita da parte di qualche forza politica.

Per un verso nei primissimi giorni c’è una sorta di psicodramma nei 5 Stelle, parte dei quali spererebbero ancora di far rivivere un governo Conte, per altro verso c’è l’opposizione della Meloni di Fratelli d’Italia e sembra al massimo una astensione da parte della Lega Nord.

Poi sembra che man mano il fattore autorevolezza, competenza, garanzia rispetto all’Europa, penetri anche rispetto a chi è affetto dal più o meno grave morbo del populismo o dall’ipoteca dell’”uno vale uno”. Rispetto ai 5 Stelle svolge un certo ruolo l’intelligente passo di Draghi di un lungo incontro di più di un’ora con il presidente del Consiglio ancora in carica Conte, che al termine dell’incontro, forse per mostrarsi ancora più affine ai 5 Stelle si fa prestare un tavolino in Piazza Colonna e parlando dal tavolino dice di non avere nostalgie governative, afferma che i 5 Stelle possono sempre contare su di lui, si allarga a dichiararsi pronto a guidare l’ex maggioranza, definendola “alleanza per lo sviluppo sostenibile” (una sigla che già esiste, di cui è portavoce il professor Enrico Giovannini), e – ciò che più conta – manifesta il suo apprezzamento e sostegno a Draghi, apprezzamento manifestato in parallelo anche da Luigi Di Maio.

A questo ha fatto seguito poi anche un qualche pronunciamento favorevole di Beppe Grillo e così i pentastellati, che erano stati giorno e notte in un’assemblea psicodrammatica in cui sembrava che quasi tutto il gruppo del Senato e metà del gruppo della Camera fossero contrari a Draghi, si sono presentati poi sabato 6 Febbraio, guidati da un Grillo (che poi si è dato alla fuga per non lasciare dichiarazioni) all’incontro con il presidente del Consiglio incaricato manifestando la loro adesione di massima per bocca del reggente Crimi, sempre che sia un governo anche politico. Quanto alla Lega, determinanti sono stati il ruolo di Giancarlo Giorgetti, che vanta da tempo una forma di rapporto con Draghi, Zaia e il mondo degli imprenditori del Nord vicino alla Lega, di cui ha tenuto conto Matteo Salvini, per cui, sempre il 6 febbraio abbiamo visto, all’uscita dell’incontro con Draghi, un Salvini in versione saggia, equilibrata, abbastanza europeista, senza rivendicazioni forti.

Ovviamente più scontata era l’adesione del Pd, che però avrebbe preferito una maggioranza “Ursula”, e mostra qualche problema a digerire la presenza della Lega Nord così come quelle di gruppi minori come Azione, +Europa e altri.

Il fatto è che i vettori del successo dell’operazione Draghi sono vari. Il primo è che si tratta di un governo del Presidente, e che in fondo dire no a Draghi, significa dire no a Sergio Mattarella. Il secondo è che, o nella loro coscienza o nel subconscio leader, semi leader e uomini dei partiti si vanno rendendo conto dei danni che ha causato in questi anni certo dilettantismo addirittura teorizzato o perlomeno diffuso in seno alle nostre classi politiche. I cronisti più informati riferivano che nel corso delle consultazioni la prassi era che il  professor Draghi, sulla base della sua profonda conoscenza delle vere priorità economiche e sociali del Paese, faceva una breve esposizione delle sue linee introduttive e poi con grande umiltà intellettuale ascoltava e prendeva personalmente appunti sulle esposizioni dei suoi interlocutori politici, spesso ben più dilettanti rispetto a lui. È come se avesse fatto tesoro della massima di Stato di Richelieu, secondo cui “bisogna ascoltare molto e parlare poco per governare bene uno Stato”.

Si è vista poi subito anche la reazione dei cittadini: il sondaggio Ipsos sul “governo di alto profilo che non si identifica in alcuna formula politica”, realizzato il 6 Febbraio per il Corriere della Sera ha ottenuto ben il 60% dei consensi. Forse sono in molti a percepire quello che ha detto colui che fu tra i primissimi sostenitori dell’esigenza del governo Draghi, Matteo Renzi: “Il governo Draghi è una polizza assicurativa per i nostri figli e i nipoti, nessuno può negarlo”.

A questo punto siamo in pratica di fronte a un governo di Unità Nazionale, in cui gli unici autoesclusi sarebbero Fratelli d’Italia (con qualche esitazione di Liberi e Uguali vista l’adesione della Lega) un po’ come fu il governo Ciampi nel 1993 a composizione mista tecnico politica.

Nel frattempo il sondaggio di Ilvo Diamanti, pubblicato su Repubblica di Domenica 7 Febbraio al termine del primo giro di consultazioni, dà un indice di gradimento addirittura del 71% a Mario Draghi.

L’Italia è uno strano Paese e, diciamo così, vive mutamenti di opinione abbastanza veloci. Ancora nella primavera del 2018 i 5 Stelle avevano vinto le elezioni con il 33% dei voti sulla base di due issues di fondo, “l’uno vale uno” e il collegato ripudio delle élite, d’impronta populista. Anche la Lega aveva avuto un buon successo elettorale, grazie a una forte critica alle élite e a una certa impronta populista. Dopo il fallimento di un primo governo populista e di un secondo governo semi populista, grazie alla tempestiva e intelligente mossa di un Presidente della Repubblica di piena e sana impronta democratica, si affida la formazione del governo al miglior rappresentante delle élite italiane ed europee e per fortuna sembra che si squagli di colpo un certo anti-elitismo e tutti capiscono che non si può non salire nel carro del vincitore.

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