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Basta l’autorevolezza del premier? I dubbi di Zecchini

Basta l’autorevolezza di una sola persona per superare le contrapposizioni, che da anni si frappongono alle necessarie misure per la ripresa economica e sociale del Paese?

Un coro quasi unanime di consensi all’incarico presidenziale di formare un nuovo governo, ma basta l’autorevolezza dell’incaricato per superare le contrapposizioni, che da anni si frappongono alle necessarie misure per la ripresa economica e sociale del Paese? O si tratta di un incarico utile per raffreddare gli animi ed ottenere una breve fase di passaggio al voto degli italiani? In questa semplice domanda sta il quesito di fondo sulla reale funzione di un nuovo governo a guida non politica, ovvero se è in grado di rispondere ai bisogni del Paese, perché è su questo terreno che è franata la precedente maggioranza di governo. Sottostante vi è sempre il quesito se in una grave situazione come l’attuale occorra l’apparente neutralità di “tecnici” al governo, oppure sia indispensabile una marcatura politica per attuare gli interventi necessari. In termini elementari, è più adatto al momento storico un governo di “tecnici” o di politici?

Per rispondere al quesito bisogna andare oltre i pur sempre importanti personalismi e la ruggine che incrinano la fiducia e la collaborazione tra forze politiche, e guardare ai nodi fondamentali da sciogliere per attuare un programma che ridia agli italiani il lavoro e il benessere di un tempo. Quali i problemi di fondo aperti e irrisolti dal precedente governo. In primo luogo, il riferimento va al Piano per la ripresa e resilienza, che nelle intenzioni è diretto ad affrontare una buona parte dei nodi del Paese, ma non tutti. Il Piano è frutto di una condivisione politica fra tre forze della maggioranza, ma non dalla quarta, ed è inquadrato nello schema richiesto da Bruxelles nel senso che assume come obiettivi quelli indicati dall’Ue delle transizioni digitale ed ecologica, innovazione ed inclusione sociale. Restano fuori importanti fattori di debolezza del sistema italiano, che vanno dalla frammentazione dell’azione di governo tra più livelli di autorità, spesso in contrasto tra loro, alla lentezza del potere legislativo e all’eccesso di norme, alla carenza di concorrenza, alle rigidità della disciplina del lavoro, all’eccesso di assistenzialismo, agli squilibri della tassazione e alla qualità della spesa pubblica.

Va detto che il Piano è anche il prodotto della PA di cui il Paese è dotato, della sua capacità di individuare gli strumenti più adeguati per gli scopi prefissati dal governo e della sua efficienza nella gestione degli interventi. Una PA non al passo degli avanzamenti tecnologici ed imbrigliata in una selva di regolamenti ed adempimenti, oltre che in gerarchie che hanno poco di meritorio, ben difficilmente può proporre una visione dei traguardi da raggiungere ed assicurare efficacia alla realizzazione degli indirizzi politici.

Tra le critiche al Piano si è detto che appare come un collage delle proposte dei diversi ministeri, manca di una visione unitaria, non ha un impatto incisivo sui nodi della crescita, non presenta una soluzione per la governance della sua attuazione, né riflette adeguatamente le priorità nella ripartizione dei fondi. Eppure, rappresenta lo sforzo di mediazione tra le quattro forze politiche della vecchia maggioranza e dalle stesse ha ricevuto un’approvazione formale. Se così è stato, è immaginabile che in pochi giorni un nuovo governo a guida “tecnica” possa rinnegare quanto ha approvato e proporre un Piano sostanzialmente diverso che risponda anche ai dettami di Bruxelles? Potrà colmare alcuni vuoti, ricalibrare le priorità e la distribuzione delle risorse, dare una veste letteraria ai grandi traguardi che si prefigurano per il futuro dell’Italia con espressioni più entusiasmanti per l’immaginazione, ma al di là delle quali bisogna fare i conti con la modesta realtà del fattibile e non lasciarsi trainare dall’irrealizzabile in un ristretto orizzonte temporale.

Entrando poi negli specifici interventi volti a sbloccare la crescita, si incontrano non poche divergenze di gran peso tra le forze politiche candidabili per il nuovo governo sull’importante capitolo delle riforme di sistema. Una delle prime è quella della PA, che presenta diverse debolezze: problemi di produttività, di distribuzione sbilanciata tra aree con eccessi coesistenti con insufficienze, di carenze di competenze, di invecchiamento e ricambio generazionale, di attenzione al rispetto nominale delle norme e non anche all’efficacia di risultato, e di lentezza dei procedimenti. Sulla PA incombe, inoltre, una valanga di norme che ne appesantiscono l’attività e minimizzano l’autonomia gestionale. Con il progresso verso la digitalizzazione sarà inevitabile ristrutturare e semplificare i procedimenti ed automatizzare alcune fasi per sveltire gli adempimenti e lasciare spazio ai controlli e valutazioni d’impatto. Ci sarà più tempo per programmare e sperimentare nuovi approcci e si investirà maggiormente nel capitale tecnologico e nelle nuove competenze. Ne risulterà un eccesso di forze di lavoro al centro come in periferia, che ben difficilmente sarà riconvertitile o ridimensionabile. Quale maggioranza nuova sarà raggiungibile tra le forze politiche per ristrutturare la PA e semplificare le norme, come si richiederebbe? Basterebbe l’autorevolezza del presidente futuro?

Lo stesso può dirsi per la riforma della distribuzione di competenze tra livelli di governo per riportare al centro quelle più importanti per il Paese e porre fine alla miriade di conflitti istituzionali e paralisi dell’azione governativa che si sono visti negli ultimi due decenni. Basta l’autorevolezza a superare le divergenze politiche? Analogamente, quale consenso per superare l’insufficienza della riforma della giustizia inserita nel PNRR, che non garantisce certezza dei tempi, né difesa rapida dei diritti contrattuali? Parimenti, con quale consenso politico si potrebbero allentare le rigidità nella disciplina del lavoro e la riconversione del capitale umano verso le nuove competenze richieste dall’economia e dalla società? Formazione del lavoro e istruzione vanno profondamente riformate per soddisfare le richieste della società in questo periodo di rapidi cambiamenti, ma con quale appoggio politico?

E in quale direzione d’investimento in opere pubbliche convogliare maggiormente le risorse pubbliche, quando una grande fetta è in mano ai governi locali che rispondono a interessi locali? Come assicurare la conciliazione tra progresso tecnico e difesa dell’ambiente quando le esigenze politiche divergono? Il bilancio pubblico non può continuare a sostenere i costi aggiuntivi della compensazione di questi contrasti. Considerazioni analoghe valgono per altre riforme, come la formazione dei docenti. Quelli accennati non appaiono problemi per i “tecnici”, ma sono squisitamente di natura politica e solo una solida base politica può affrontarli.

Va altresì considerato che l’effetto delle riforme strutturali sulla crescita si avverte soltanto nel medio periodo e con costi di aggiustamento visibili in anticipo, mentre il Paese chiede ormai un ritorno rapido all’espansione dell’occupazione, degli investimenti e dei servizi pubblici in condizioni di maggiore efficienza. Ne discende che bisogna mediare tra interventi di struttura e quelli a effetto nei prossimi 18 mesi, che si traducono prevalentemente in reflazione della domanda interna più che miglioramenti dal lato dell’offerta, ovvero della competitività (produttività) del lavoro e delle imprese. Le implicazioni sono sul piano della distribuzione delle risorse tra le due categorie, compito che spetta solo alle forze politiche assolvere. In ogni caso un rimbalzo della crescita è molto probabile per via delle grandi risorse già spese e per il superamento della crisi sanitaria e della compressione dei consumi, un rimbalzo che per sé stesso non garantisce una robusta prosecuzione della fase di espansione.

Rafforzare la ripresa economica, il rinnovamento sociale ed assicurare continuità di azione riformatrice negli anni richiedono a dir poco lo spazio di una legislatura. Se un tale programma non si è realizzato in quelle passate, quando vi erano più solide maggioranze, non è per carenza di personaggi affidabili e capaci, ma per discordanze di visione politica sul futuro del Paese. L’autorevolezza di un premier, o di un governo di tecnici è utile ed opportuna in fasi di estrema crisi come quella finanziaria del 2011 o nei decenni precedenti, ma sempre sostenuta da un consistente consenso politico. In quei frangenti si è riusciti a far approvare riforme impopolari ma necessarie, salvo poi osservare la loro inversione da parte dei governi succedutisi.

Nell’attuale fase un’alternativa sarebbe un governo di unità nazionale, ma condurrebbe al compromesso tra forze politiche divergenti sul minimo di interventi di riforma e su misure di più facile consenso popolare, che non porterebbero alla soluzione dei nodi dello sviluppo. Si torna quindi all’interrogativo iniziale, ossia può l’autorevolezza di un “tecnico” servire a superare le divergenze tra forze politiche e costruire una base di supporto politico per le misure necessarie? Oppure serve a facilitare il passaggio per ridare la parola agli elettori? Naturalmente in questa alternativa entrano in gioco anche le convenienze tattiche delle parti politiche. Staremo a vedere l’esito. Alla fine si può iniziare come “tecnico” e rivelarsi più “politico” dei politici.

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