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Dopo il fallimento della politica si riparte soltanto con il sinodo

In un tempo in cui il bisogno di partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare indietro. Da cosa deve ripartire l’Italia? C’è la necessità di un cattolicesimo che sappia affrontare la realtà odierna e dialogare con essa. L’analisi di Riccardo Cristiano

Da quando ho sentito il discorso con cui il Presidente Sergio Mattarella annunciava l’imminente conferimento di un incarico di alto profilo e molti commentatori affermare di lì a breve che la politica era stata commissariata, mi sono domandato: non sapevamo che la politica ha il compito di scegliere e i tecnici quello di rendere possibile, di mettere in pratica?

Se la politica non sa più scegliere, questa decisione non sancisce il fallimento della politica? Mattarella impedendo che il fallimento della politica sia anche il fallimento del Paese fa il possibile e va ringraziato per fermezza, determinazione e coraggio, ma non serve cominciare anche a ricostruire la nostra unità e consapevolezza culturale?

E i vescovi, sempre così solerti a dire la loro davanti agli orientamenti parlamentari, davanti a questo disorientamento totale non hanno nulla da dire? Non dovrebbero, come gli ha chiesto Francesco, annunciare proprio in queste ore e tutti insieme che il sinodo della Chiesa italiana comincia, subito? Da cosa può ripartire l’Italia come comunità senza più partiti di massa, senza consapevolezza sindacale, senza più idea di cosa siano i corpi intermedi, se non dal cattolicesimo come tale, non come gerarchie? Queste domande venivano a me che do attenzione anche professionale alla Chiesa, ma dall’esterno. Così mi sono domandato se dentro la Chiesa queste domande abbiano riguardato anche altri.

Dalle ore del conferimento dell’incarico a Mario Draghi ho atteso una richiesta, una proposta di cominciare a ragionare sull’organizzazione di un sinodo. Il cardinale Bassetti – sul quotidiano Avvenire – mi è parso un po’ capire ma fondamentalmente chiedendo ancora tempo. Eppure il disordine culturale di un Paese che spera di aggrapparsi alla buona lena di pochi, tra mugugni e calcoli sostanzialmente di bottega, non fa presagire nulla di buono per la qualità del nostro vivere insieme, della nostra comunità. A cosa serve una comunità ecclesiale così diffusa se non si occupa dello smarrimento comunitario in un momento simile? Non tutto è perso, certo, ma i riferimenti diventano pochi. Davvero non si parla di sinodo ma forse qualcuno progetta un partitino? Un altro?

Ricordando il suo impegno per il grande convegno ecclesiale del 1976 “Evangelizzazione e promozione umana”, il momento in cui più vicino un sinodo è apparso nella storia della Chiesa italiana, il professor Giuseppe De Rita ha detto in una recente intervista a La Civiltà Cattolica: “A distanza di tempo, e pensando al rinserramento degli anni Ottanta e Novanta, quella spinta alla mobilitazione collettiva appare un’eccezione ‘epocale’, qualcosa di anomalo rispetto al tran tran quotidiano della vita ecclesiale, e anche rispetto all’appariscente politica ecclesiastica sui cosiddetti ‘valori non negoziabili’. Eppure non era un’eccezione, anzi quella mobilitazione collettiva era coerente con una società italiana, quella degli anni Settanta, che era piena di tensioni, contraddizioni, conflitti sociali e dialettiche culturali. In un clima che imponeva ai vari soggetti – individuali e collettivi – l’imperativo di osare, pur di non restare nell’irrilevanza della mediocrità.

Sono gli anni dell’esplosione della piccola impresa, dei distretti industriali, dei consumi di qualità, dell’avvio della stagione del made in Italy. E anche – è bene ricordarlo – gli anni di una conflittualità diffusa, sia sindacale – ricordiamo gli autunni caldi – sia di piazza”. Sempre De Rita, descrivendo culturalmente quel tempo, ha affermato: “Era da tempo in corso un dibattito, diciamo, tra gli ottimisti e i pessimisti post-conciliari. E in quel preciso momento dominava un pessimismo, con venature di non speranza, che mi sapeva proprio di pessimismo borghese; di declino della borghesia come gruppo di spinta, mentre cresceva l’imborghesimento di massa; di illusione borghese di poter e dover dare testimonianza con le parole, mai con l’impegno e le opere”.

Per farci capire bene cosa significò quel convegno De Rita ha ricordato che prima di aprire i lavori il cardinale vicario di Roma del tempo gli disse: “Ricordi che lei è il primo laico che parla a San Giovanni in Laterano dopo Federico Barbarossa”. Ecco, io direi che è ora di dire, “non c’è due senza tre”. E già nel 2019 il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, partendo proprio dal convegno del 76, ha detto all’Osservatore Romano dell’ipotesi di un sinodo italiano: “Sento che potrebbe avere un effetto benefico anche come naturale evoluzione di quel lungo percorso che nella Chiesa italiana ha avuto avvio con il primo Convegno ecclesiale di Roma (1976). A più di quarant’anni di distanza, la situazione è mutata, anzi complicata non poco: è quindi quanto mai urgente proseguire”. Il cardinale Semeraro pochi giorni fa ha spiegato perché questo sia urgente: perché la Chiesa di popolo deve essere tutta “capace di guardare la realtà e il mondo così come sono”. A partire dunque dal laicato cattolico, come nel ‘76.

Se allora la Chiesa seppe osare non capisco perché oggi non debba.  In un momento pandemico che sembra concludere parabole politiche, non avremmo bisogno di ridefinirci come comunità? Da dove altro partire per arrivare poi tutti a ridefinire la nostra comunità? Draghi ci potrà condurre in porti sicuri con un nuovo Recovery Plan, auspicabilmente, ma i percorsi culturali del nostro Paese a chi verranno affidati? Chi può governare le nostre paure? Chi può restituirci un’idea di Paese?

Quasi avvertendo quel che ormai è conclamato e sotto i nostri occhi il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, esprimendosi per un sinodo italiano già nel 2019 ha scritto: “Ed eccoci all’attuale crisi della democrazia. In un tempo in cui il bisogno di partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare all’’usato garantito’ o alle retoriche già sentite. Tantomeno, quindi, possiamo immaginare di risolvere la questione mettendo i cattolici tutti da una ‘parte’ (considerando tutti ‘gli altri’ dall’altra). Non basta più neanche una sola tradizione politica a risolvere i problemi del Paese. La forza propulsiva del cattolicesimo democratico ha bisogno di essere resistente in questi tempi confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio, perfino coloro che oggi sono riusciti a intercettare umori e idee della gente. Agostino e Benedetto, davanti al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del cristianesimo del Medioevo. Il cristianesimo non ha mai temuto i cambi di paradigma”.

Non mi sembra che alla Chiesa italiana servano altri vescovi, piuttosto direi che servano laici attivi, coinvolti, e un nuovo volto italiano davanti a tutte le nuove povertà che ci riguardano, a partire dai giovani. La povertà che cresce nelle esclusioni, la povertà che divora pezzi di benessere che non basta più e trasforma ceti medi in ceti impoveriti va affrontata tornando a sognare insieme.

Non credo che all’Italia serva un partito cattolico, piuttosto lo temo. Serve invece un cattolicesimo vivo e che sappia osare di guardare in faccia la realtà del tempo della pandemia, della politica teologica che brandisce crocifissi, dello smarrimento di credenti che temono nuove invasioni e lo stesso dialogo con gli altri. Questo è il solo motore che vedo per rimettere in moto giovani, donne, immigrati, professionisti, esclusi e portarlo poi in altri ambienti. Altrimenti sogneremo ulteriori riduzioni del numero dei parlamentari, fino magari a lasciarne uno solo.


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