La conferma del premier Pashinyan non è solo nelle sue mani. L’esercito chiede le sue dimissioni e dopo le manifestazioni di piazza, proprio dalla possibile decisione di Mosca di appoggiarlo in toto o meno, potrebbe scaturire un’accelerazione decisiva
Cosa c’è dietro il quasi colpo di stato in Armenia che ha portato migliaia di manifestanti in piazza contro il premier? Quanto ha influito lo schema “siriano” andato in scena nel Nagorno Karabakh, dove la contrapposizione, vera o presunta, tra Russia e Turchia ha prodotto l’attuale status quo a favore dell’Azerbaijan nelle aree contese? E come reagiranno i super player rispetto al terremoto politico in atto a Yerevan, nei giorni in cui spicca il primo raid della presidenza Biden in Siria contro gruppi filo-Iran?
MILITARI VS PREMIER
Punto di partenza è la piazza. “La gestione inefficace delle attuali autorità e i gravi errori in politica estera hanno messo il Paese sull’orlo del collasso”: lo hanno detto i vertici dello stato maggiore dell’esercito e altri alti funzionari militari. Inoltre due ex presidenti, Robert Kocharyan e Serzh Sarksyan, hanno rilasciato dichiarazioni chiedendo ai cittadini armeni di sostenere i militari. L’esercito chiede le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan (nella foto) come conditio sine qua non: è cerchiata in rosso la sua gestione del conflitto con l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, che si è concluso nel novembre scorso con la perdita del controllo armeno sulla regione contesa e sulle aree circostanti, tra cui la città di Shusha.
Da ieri migliaia di manifestanti pro-esercito e sostenuti dalle opposizioni al governo sono scesi in piazza per chiedere il passo indietro del premier, la cui risposta si è materializzata in una contromanifestazione. Ha radunato i suoi seguaci nella capitale, dove ha pronunciato un discorso infuocato.
REAZIONI E SCENARI
Come influirà la postura russa nella gestione della crisi a Yerevan? In primis va osservato che siamo in presenza di un fatto senza precedenti in Armenia: è una primizia assoluta la possibile presa del potere da parte dei militari. Ma il destino di Pashinyan non è evidentemente solo nelle sue mani in considerazione del fatto che, proprio dalla possibile decisione di Mosca di appoggiarlo in toto o meno, potrebbe scaturire un’accelerazione decisiva. Esiste anche la possibilità, data però in ribasso, come osservato ieri dal ministro degli esteri Sergei Lavrov, che Mosca voglia restare fuori dalla controversia (“riteniamo la situazione come una questione interna dell’Armenia e speriamo che possa essere risolta pacificamente”).
Non va dimenticato che, inizialmente, Pashinyan non aveva avuto un buon riscontro dai vertici del governo russo, per via di sua precedenti posizioni su tematiche delicate. Ma nel corso degli anni e a conflitto in Nagorno-Karabakh avviato, il premier armeno ha mostrato una spiccata vicinanza al governo di Putin. La Russia inoltre mantiene una base militare in Armenia.
C’è però la questione dei missili a tenere banco: Yerevan è stato il primo Paese straniero a ricevere i missili Iskander, che a detta di Mosca sono armi di buon livello. Dall’Armenia è arrivata la notizia che l’Iskander è stato utilizzato in Karabakh, circostanza però smentita dal ministero della Difesa russo. Arayik Harutyunyan, il presidente dell’enclave del Nagorno-Karabakh, si è offerto di fare da mediatore tra Pashinyan e lo stato maggiore.
Intanto di certo c’è l’appoggio turco al premier: non solo il ministro degli esteri Mevlut Çavuşoğlu ma anche Garo Paylan, parlamentare armeno-turco dell’opposizione filo-curda Peoples ‘Democratic Party (HDP) e il vicepresidente del Partito popolare repubblicano (CHP) Özgür Özel. Quest’ultimo, però, è lo stesso partito che mise in dubbio il resoconto del governo circa il fallito golpe in Turchia del luglio 2016, a dimostrazione di una situazione non proprio uniforme sul Bosforo, dove gli intrecci con la questione armena si sommano alle mosse in Siria condotte in tandem con la Russia.
OCCIDENTE
Detto dell’oriente, è il quadrante occidentale a dover fare una mossa visto che fino ad oggi non si sono registrate azioni concrete sul dossier Nagorno-Karabakh da parte dell’Ue. L’assenza di Bruxelles anche nelle fasi di mediazione ha avuto l’effetto di una vacatio poi riempita, come in Siria e in Libia, da Ankara e Mosca. Proprio la Siria è terreno di parallele strategie: la Turchia non vede di buon occhio l’Unità di protezione popolare (YPG) guidata dai curdi, che guida le Syrian Democratic Forces (SDF) sostenute da Washington. Secondo Erdogan è una propaggine siriana del PKK. Inoltre la crisi in Armenia è incastonata in giorni caratterizzati dal primo attacco in Siria dell’amministrazione Biden contro le infrastrutture utilizzate dai gruppi militanti sostenuti dall’Iran. Elementi che non possono restare scollegati, dal momento che segnalano una discontinuità con la postura di Trump in Siria.
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