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Ilva? Migliorare ma non chiudere. La transizione difficile

Sessanta giorni per chiudere area a caldo dello stabilimento Arcelor Mittal secondo la sentenza del Tar di Lecce. Appena insediato il governo Draghi si troverà a gestire il primo grande problema di politica industriale del Paese. Ecco tutti i nodi da sciogliere nell’analisi di Federico Pirro, Università di Bari

Il Tar di Lecce ieri ha respinto il ricorso di ArcelorMittal e di Ilva in AS contro l’ordinanza del sindaco di Taranto, a suo tempo emanata, con la quale aveva disposto che i gestori del sito individuassero e superassero le criticità derivanti da fenomeni emissivi dell’acciaieria, stabilendo però, in difetto di interventi idonei, la fermata dell’area a caldo.

Il Tribunale amministrativo, dopo una prima sospensiva accordata nei mesi scorsi per consentire valutazioni di merito di quanto contenuto nell’ordinanza sindacale, ha condiviso nel merito le sue motivazioni e ha assegnato un termine di 60 giorni dalla pubblicazione della sentenza perché gli impianti siano spenti. Arcelor e Ilva in AS hanno già preannunciato ricorso al Consiglio di Stato.

Nel suo dispositivo il Tar fra l’altro ha affermato che “l’adeguamento tecnologico degli impianti e la conversione dell’alimentazione dei forni dal carbone all’elettrico avrebbe probabilmente scongiurato un gran numero di decessi prematuri e un’incidenza così elevata di malformazioni e patologie oncologiche anche in età pediatrica e infantile”

In tal modo però, secondo alcuni osservatori, il Tar da un lato avrebbe considerato ormai incontrovertibile un rapporto tra emissioni inquinanti e determinate patologie – che in realtà è oggetto del processo ‘Ambiente svenduto’ in corso a Taranto contro i presunti colpevoli di inquinamento e che non è ancora giunto a sentenza di primo grado – e dall’altro avrebbe puntato a prefigurare scelte di natura impiantistica, specificando le tecnologie (i forni elettrici) che dovrebbero caratterizzare l’assetto produttivo del sito, sostituendovi totalmente gli altiforni.

Ora, è noto che nelle scorse settimane era stato definito il piano industriale fra Invitalia e AmInvestco Italia – in cui entrerà la finanziaria pubblica con una quota del 50%, destinata a salire al 60% nel 2022 – che prevede il revamping e la riattivazione nel 2023 dell’altoforno n.5, con un investimento in tre anni di 226 milioni, l’esercizio nel frattempo degli Afo, 1, 2 e 4 e l’installazione di un forno elettrico con la costruzione di un impianto per la produzione del preridotto di ferro che dovrebbe alimentare forno elettrico e altiforni.

Nel constatare come appena insediato il governo Draghi – che peraltro non ha ancora ottenuto la fiducia del Parlamento – si trovi a gestire il primo grande problema di politica industriale del Paese, la domanda che sorge spontanea è la seguente: può la sentenza di un Tar prefigurare specifici assetti impiantistici di uno stabilimento, in questo caso richiamando la necessità di imperniarvi la produzione solo su forni elettrici? La sentenza di un Tribunale amministrativo può sicuramente auspicare l’adozione di tecnologie e procedure che abbattano l’inquinamento, ma può spingersi, come in questo caso, sino ad affermare che debba esservi una conversione dei forni dal carbone all’elettrico?

Ma, dopo la prima, un’altra domanda sorge spontanea: dopo la sentenza del Tar, il Piano industriale approvato dai contraenti l’accordo fra Invitalia e AmInvestco Italia – già presentato ai sindacati che hanno espresso riserve sui livelli occupazionali previsti da quel piano che dovrebbe raggiungere gli otto milioni di tonnellate di produzione, ma solo entro il 2025 per conservare l’attuale occupazione di 8.200 addetti a Taranto da collocare, però in lunghi periodi di cigs – deve essere totalmente riscritto, come vorrebbero ormai da tempo amministrazione comunale e Regione Puglia?

A mio avviso, quel piano potrebbe essere accelerato nei cronoprogrammi sinora previsti, con migliori specificazioni per quanto riguarda costi, tempi di entrata in esercizio e livelli occupazionali anche (eventualmente) con un secondo forno elettrico e con l’impianto per la produzione del preridotto, ma non bisognerà mai dimenticare che lo stabilimento ionico resta strategico per la siderurgia italiana, ed è anche per il numero dei suoi attuali occupati diretti (8.206) la prima fabbrica manifatturiera d’Italia, dalla quale peraltro dipendono per lavorazioni a valle anche i siti di Genova e Novi Ligure. Pertanto dovrà continuare a produrre in piena ecosostenibilità, ma senza scardinarne – come vorrebbe invece l’estremismo ambientalista – l’impalcatura complessiva con danni devastanti per l’occupazione e la situazione economica della città e della provincia.


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