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Un’agenzia per le politiche dei territori. Una proposta di sindaci e regioni?

Davvero è un’utopia pensare che venga dagli amministratori locali la proposta di una Agenzia per le politiche del territorio in cui le diverse competenze politico-professionali costituiscano, esse stesse, il ventaglio di questa esigenza di cooperazione? Risponde Lucio D’Ubaldo, direttore del Centro documentazione e studi dei Comuni Italiani (Anci-Ifel)

La domanda da porsi è se la ricostruzione dell’Italia possa concedersi a lungo una sfibrante interazione tra Stato e autonomie locali. Legittimo quesito alla luce del messaggio di unità e condivisione che accompagna la nascita del governo Draghi. Un progresso a base di competizione tra regioni e città, concepito all’insegna di una modernizzazione a basso regime solidaristico, si è rivelato un azzardo.

Ora, nell’attuale momento di buio, assolve alla medesima funzione di una lampadina fulminata. Torna a imporsi nel Paese la percezione di quanto valga, a tutela di un sano interesse comune, l’Italia “una e indivisibile” della Costituzione. In effetti, nel cuore della pandemia si è palesato il carattere fantasioso e disordinato del federalismo. A riguardo, molti dovrebbero essere richiamati a un esame di coscienza per la superficialità dimostrata nella revisione del Titolo V, con un successivo effetto di ridondanza e complicazione su vari interventi legislativi a carattere generale o specifico.

La governabilità, pur necessaria, ha conosciuto una diramazione fuorviante. Sulla scia della crescente personalizzazione della politica si è insinuata nel sistema una vocazione oligarchica. Saremmo ciechi se l’attribuissimo solamente all’entità statuale, quasi che il centralismo burocratico fosse l’incubatore di una malattia endogena e non trasmissibile, tanto da lasciare indenne i Comuni.

Da tempo invece la vitalità della democrazia locale conosce un analogo processo di irrigidimento nella gestione del potere democratico. L’elezione diretta di sindaci e presidenti di Regione, accompagnata allo svilimento voluto o non voluto delle assemblee consiliari, ha indebolito la logica dei pesi e contrappesi su cui poggia la moderna organizzazione della democrazia. Così stanno le cose.

È indubbio infatti che la partecipazione, nonostante l’enfasi riposta sulla figura del cittadino attivo e responsabile, abbia subito una contrazione o quanto meno un rallentamento. Insomma, alla fine appare risibile il tentativo di nascondere la crisi sottostante alle politiche di devoluzione, vera mascheratura di egoismi sociali e territoriali.

Si sente soffiare un vento contrario. Un articolo arguto e inclemente di Alec Ross (Draghi e il codice Obama, La Repubblica, 16 febbraio 2021) ha contestato l’assunto che una buona politica di investimenti, ai fini del rilancio dell’economia, consista nel “dare soldi alle amministrazioni municipali per qualsiasi progetto speciale vogliano finanziare, dal restauro di una fontana al finanziamento di una serie di iniziative artistiche”.

In questo modo vince il populismo macroeconomico. Invece la sua ricetta rimanda a un programma di gestione verticale degli investimenti – quelli buoni e non effimeri, equivalenti metaforicamente al valore nutritivo delle proteine e non degli zuccheri – poiché solo questo “produrrà la ricchezza privata necessaria per poter finanziare tutti i restauri di fontane e programmi artistici che si vuole”.

L’autore si dichiara convinto di questa opzione neo-statalista memore dell’esperienza vissuta per quattro anni come consulente per l’innovazione all’epoca della Presidenza Obama. Il suo è un invito, nella sostanza, a non ripetere gli errori commessi a Washington all’indomani della crisi finanziaria del 2007.

Nel dibattito sulla fiducia, Draghi ha fatto cenno alla collaborazione con i Comuni, ma di per sé questo impegno potrebbe anche sfociare in un “dirigismo benevolo” alla stregua delle politiche anni ‘30 (New deal); un dirigismo, cioè, dotato di quel mix di rapidità e flessibilità che consenta di fronteggiare le urgenze della ripresa dopo la peggiore caduta, da tempo immemorabile, di tutti gli indici economici (reddito, occupazione, investimenti, ecc.) della nazione.

Ha pure detto qualche giorno fa, parlando davanti ai magistrati della Corte dei Conti, che “per la prima volta in tanti anni lo Stato si trova a poter fare investimenti significativi con il solo vincolo che siano fatti bene”. Ora, a cagione di un declino culturale che travalica la buona volontà dei singoli attori, la voce del popolo degli amministratori non ha risuonato adeguatamente – a parte un’eco d’inevitabile rivendicazionismo – nel concerto delle proposte sull’uso strategico delle risorse messe a disposizione dall’Unione europea.

Investire bene, con riforme non prive di rischio, significa fare scelte coerenti e ambiziose a ogni livello dell’ordinamento repubblicano. Per questo è necessaria una coordinazione delle iniziative pubbliche per evitare da un lato la frammentarietà e dall’altro la piattezza, benché razionale, degli interventi.

Ogni riforma implica connessioni. L‘elenco riporta i tanti capitoli di un unico dossier, dunque una visione integrata del cambiamento. Il riordino tributario, ad esempio, non può fare a meno di una conseguente armonizzazione dell’autonomia impositiva locale. La pubblica amministrazione va rafforzata, ma in un’ottica d’insieme, sapendo che ingegneri e architetti sono figure essenziali per i Comuni.

La digitalizzazione dell’economia cambia tutto: l’urbanistica e i servizi territoriali, la mobilità e i trasporti, la gestione dell’ambiente e della salute pubblica. Cambia in definitiva il modello di funzionamento delle istituzioni, senza distinguere tra rami alti e rami bassi dell’amministrazione. Da questa consapevolezza deriva l’attesa di nuove formule operative a beneficio di una transizione che, in un frangente straordinario come l’odierno, sollecita uno sforzo corale di conoscenza e promozione.

Dunque, è un’utopia pensare che venga dagli amministratori locali la proposta di una Agenzia per le Politiche del Territorio – si vedrà meglio il nome e il profilo istituzionale – in cui le diverse competenze politico-professionali costituiscano, esse stesse, il ventaglio di questa esigenza di cooperazione?

Non si tratta di aggrovigliare i nodi, con altra burocrazia, ma di scioglierli nella felice soluzione chimica di una progettualità a più mani, per dare prova di un’Italia inventiva e dinamica: l’Italia che noi vogliamo. Forse ai Sindaci conviene persino anticipare una simile impresa, mettendo le carte sul tavolo anche attraverso un’autonoma sperimentazione, per dare l’abbrivio a un processo nuovo. E dimostrare infine come sia importante e ragionevole investire sui Comuni o meglio ancora, per chiarezza maggiore, insieme ai Comuni.


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