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Dal Belgio un segnale per gli uiguri. Ma ora tocca all’Italia

Dal Belgio arriva un segnale in difesa degli uiguri. Ma non basta. E con Germania e Francia impegnate in difesa dell’accordo con Pechino, l’Italia ha un’occasione (e una responsabilità). L’opinione di Laura Harth (Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”)

Mossa coraggiosa questa mattina nel parlamento belga dove due deputati hanno depositato una proposta di risoluzione che, se adottato, impegnerà il governo a riconoscere formalmente l’esistenza di un genocidio in corso per mano del regime cinese nella regione dello Xinjiang. Il proponente Samuel Cogolati, co-presidente dell’Alleanza interparlamentare sulla Cina (Ipac) ha sostenuto che “i milioni di internati nei campi di prigionia, le sterilizzazioni di massa coercitive e il trasferimento dei bambini negli orfanotrofi statali rievocano i capitoli più oscuri del XX secolo. Solo riconoscendo queste atrocità per quello che sono, vale a dire un genocidio, possiamo iniziare a offrire speranza di giustizia per gli uiguri e le altre vittime della persecuzione dello Stato cinese nello Xinjiang”.

Il Belgio diventerebbe il primo Paese dell’Unione europea a seguire le orme degli Stati Uniti, dove sia l’amministrazione Trump sia quella Biden hanno ufficialmente definito le continue campagne di internamento di massa della popolazione uigura e di soppressione forzata delle nascite come un genocidio ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948.

Xinjiang e violazioni massicce dei diritti umani sono stati temi al centro anche della prima conversazione telefonica tra il presidente statunitense Joe Biden e l’omologo cinese Xi Jinping, come racconta il resoconto pubblicato dalla Casa Bianca. Non è mancata la reazione immediata da parte di Pechino, che attraverso l’agenzia di Stato ha ribadito che tale questione è un “affare interno” alla Cina, sul quale vanno rispettati “gli interessi fondamentali della Cina”, concludendo con la ormai consueta minaccia velata del rischio di uno scontro possibile che “sarebbe sicuramente disastroso per entrambi i Paesi e il mondo”.

È poco probabile che tali minacce fermeranno la nuova amministrazione statunitense a portare avanti la linea dura sulla Cina, forte di un quasi unanime consenso bipartisan sul tema. Ma è un ottimo indizio verso la creazione di un consenso multilaterale nell’Alleanza atlantica vedere le mosse parlamentari in un numero crescenti di Paesi: dal Genocide Amendment nel Regno Unito e le molteplici risoluzioni al Parlamento europeo, alla proposta di risoluzione belga di oggi.

Certo, a differenza della linea condivisa tra Congresso e amministrazione negli Stati Uniti, nel continente europeo regna un divario crescente in merito tra i parlamenti da una parte e i governi e le istituzioni dall’altra. Basti pensare alla questione apertissima sull’Accordo complessivo sugli investimenti, promossa in primis dalla cancelliera tedesca Angela Merkel insieme alla Commissione europea contro le indicazioni minime date dal Parlamento europeo. Una questione che viene ripresa anche nella mozione belga, dove i deputati chiedono al governo di fermarne l’approvazione finale fino a quando la Cina non avrà effettivamente ratificato le convenzioni chiave dell’Organizzazione internazionale del Lavoro sul lavoro forzato, una pratica promossa con schemi governativi sempre più documentata nelle regioni oppresse dello Xinjiang e il Tibet.

A proposito Cogolati ha sottolineato come “non possiamo continuare con il business as usual con la Cina mentre sempre più prove documentano le orribili violazioni dei diritti umani perpetrati dallo Stato cinese contro gli uiguri e altri gruppi nella regione dello Xinjiang. È del tutto inaccettabile che l’Unione europea abbia ceduto proprio sui diritti umani per suggellare il suo Accordi di investimento con la Cina. Il messaggio dal Belgio e da tutta Europa deve essere chiaro: nessun accordo finale senza la ratifica da parte della Cina delle norme internazionali sul lavoro forzato”.

È infatti evidente che il famoso adagio del cambiamento positivo attraverso il commercio abbia pienamente fallito. Basti pensare al fatto fatto che i suoi maggiori proponenti ancora oggi, a partire della Germania con la sua politica mercantilista, hanno dovuto fare dietrofront sulle più minime richieste nel campo dei diritti umani per arrivare all’accordo. Inoltre, è sempre più evidente che nonostante le frequenti minacce cinesi, il Partito comunista cinese si guarda bene di bloccare gli ingenti investimenti europei nel suo Paese. Investimenti che infatti sono in continua crescita e giovano quindi alla manutenzione del regime feroce, mentre quelli cinesi in Europa continuano a calare come testimoniano le ultime statistiche. Invece di cedere alla Cina, esponendo il blocco a una crescente dipendenza economica, l’Europa si troverebbe teoricamente quindi in una posizione di forza per imporre una linea basata sui suoi valori in quel che è in primis un accordo politico.

Visto gli immensi interessi della potente industria tedesca è improbabile che la cancelliera Merkel o chi le succederà si farà portatore di questa posizione di difesa risoluta dei principi fondamentali dell’Unione europea, di concerto con l’alleato statunitense. Lo stesso vale il presidente francese Emmanuel Macron, orgogliosamente presente alla videoconferenza di capodanno per sigillare l’intesa di principio sul Cai. Né possiamo aspettarci che sia uno piccolo Stato membro, sebbene Paese fondatore dell’Unione europea, come il Belgio a cambiare la linea europea.

È dunque un’immensa opportunità per l’Italia, per tornare protagonista sulla scena europea e nell’Alleanza atlantica. Di fronte alle crescenti e quasi unanimi critiche all’ipocrisia tedesca e francese per la loro velata complicità ai crimini perpetrati del regime cinese attraverso la promozione di un appeasement economico che chiude gli occhi sulle gravissime accuse di violazioni massicce dei diritti umani, l’Italia — primo Paese promotore della moratoria universale sulla pena di morte e della Corte penale internazionale — potrebbe tornare a essere Paese leader nella difesa dei valori universali e un partner forte e affidabile per la nuova amministrazione statunitense.

Certo, servirebbe un segnale politico forte che riesca a disinnescare la posizione fin troppo ambigua creata negli ultimi anni, in particolare con la sottoscrizione dell’accordo politico con Pechino sulla Via della Seta. Accordo che appunto non ha certamente creato vantaggi economici per il Bel Paese, ma che — proprio come il Cai — ha mandato un messaggio politico molto pericoloso per un Paese del G7. Un messaggio che ci rende complici ogni giorno della crescente repressione in Cina. Un messaggio che rispecchia esattamente le dichiarazioni di Xi in risposta a Biden oggi: le vostre politiche genocidarie di popoli e di libertà sono “affari interni” e non ci riguardano.

Non è una posizione di cui un Paese come l’Italia possa andare fiera. Non è un messaggio in linea con la sua Costituzione e la sua legittima ambizione come attore di spicco europeo e geopolitico. Non è il momento dell’ambiguità. Osiamo sperare che il ribadito e netto orientamento atlantista del presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi, insieme alle chiare dichiarazioni espresse dalle allora opposizioni parlamentari durante il dibattito parlamentare sul voto di fiducia al dimissionario Giuseppe Conte, porti il Paese al più presto a rescindere ufficialmente da quel famigerato patto politico. Con coraggio e orgoglio.



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