Formiche.net dedica un approfondimento sull’Afghanistan alla luce delle evoluzioni spinte da Washington. Tre analisi proposte da tre alti generali delle Forze armate italiane sul futuro del paese e tutto ciò che ne ruota attorno
Le ultime notizie (uscite oggi, domenica 14 marzo, sul New York Times tramite funzionari statunitensi, europei e afghani) raccontano che gli Stati Uniti in Afghanistan hanno circa mille soldati in più di quanto dichiarato. Si tratta di commandos che lavorano per Pentagono e Cia e il cui dispiegamento è coperto da un perimetro nebuloso per ragioni operative, ma “ciò aggiunge un altro livello di complessità al vorticoso dibattito alla Casa Bianca sull’opportunità di mantenere un accordo, raggiunto dall’amministrazione Trump e dai talebani, che richiede la rimozione delle forze americane rimanenti entro primo maggio”. Data che potrebbe facilmente saltare, mentre quei reparti scelti potrebbero restare per portare avanti missioni anti-terroristi (anche sabato ci sono stati otto morti a Herat per un’autobomba).
Mille uomini possono sembrare niente davanti ai centomila che erano presenti al culmine del conflitto, ma la loro permanenza è un fattore chiave sia per le dinamiche a Kabul (dove è in corso un processo di dialogo per niente facile tra governo e Talebani, su cui recentemente gli americani hanno diffuso un piano e su cui gli insorti insistono: niente pace finché ci sono i soldati Usa), sia a Washington. L’Afghanistan è in cima alla lista delle “endless war” (come le chiamava Donald Trump che rivendicava il successo di aver ulteriormente ridotto il contingente a 2500 unità nel rush finale della sua presidenza) e l’uscita dal paese è diventata da tempo una necessità di politica interna a cui Joe Biden non è immune.
Formiche.net ha dedicato oggi uno speciale, alla luce delle ultime evoluzioni attorno al dossier, la cui importanza è di carattere regionale (con contraccolpi geopolitici, sugli equilibri securitari dell’area, e sulle relazioni tra Usa e alleati come la Turchia e rivali come Cina e Russia). Il quadro attuale è analizzato attraverso tre alti generali delle Forze armate italiane che hanno maturato durante il loro servizio esperienze dirette, o sul campo o sulla gestione degli assetti che l’Italia ha ancora attivi nel paese.
Secondo il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, il piano di Biden non è poi così diverso da quello di Trump, con l’attuale presidente che ha preso in mano “la bacchetta da direttore, ma tra le mani gli è rimasto anche il cerino”. Se il motto “Siamo entrati assieme, e usciremo assieme” contraddistingue da sempre la Nato a proposito dell’impegno congiunto in Afghanistan (applicazione dell’Articolo V richiesto dagli Usa dopo l’attacco del 9/11) però non va dimenticato che inglesi, francesi e spagnoli sono già usciti, cogliendo un’ottima occasione prima che scattasse la trappola, scrive il generale: “Forse facciamo ancora in tempo a ripensarci: abbiamo lavorato tanto, la nostra coscienza è pulita, lasciamo un buon ricordo e non è escluso che, nel tempo, potremmo anche aver notizia che i nostri buoni semi stanno iniziando a germogliare. Abbiamo l’Iraq che ci attende”.
Vedremo presto se il termine “talebano”, divenuto sinonimo comune di “oscurantista” dalle nostre parti, ben al di là del suo significato letterale, lascerà il posto tra qualche anno a qualcosa di diverso, è invece il sunto dell’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Folgore, primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore del comando Isaf in Afghanistan. E l’affermazione riguarda il dialogo istituzionalizzato con i ribelli jihadisti un tempo guidati dal Mullah Omar, passaggio necessario per trovare la fine dei combattimenti seppure con delle controversie.
Per il generale Vincenzo Santo, anch’egli passato per il ruolo di capo di stato maggiore del comando delle forze Isaf a Kabul, l’intento della lettera con cui il segretario di Stato americano ha comunicato al presidente afghano Ashraf Ghani gli obiettivi di Washington è quello di volersi muovere solo sulla base di ciò che accade sul terreno, “quasi nella certezza (speranza?) che i talebani non si piegheranno a un ulteriore periodo di riduzione della violenza”. È quello che viene definito condition-based approach, un “composto concettuale difficile da rendere in termini di obiettività. Ma in questi affari l’obiettività diviene flessibile, si sa. E rischia ancora di esserlo, come è sempre stato sin dalla medesima illusione che ne ebbe Obama. Infatti, non funzionò; le condizioni non si sono mai realizzate. E sono ancora lì. Rebus sic stantibus, gli americani non se ne andranno presto e, comunque, non tutti”. “Scetticismo fuori posto?”, si chiede: “Forse”.
(Foto: Defence Department, Joe Biden in Afghanistan nel 2011)