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Se Biden segue Trump sull’Afghanistan. L’analisi del gen. Bertolini

Vedremo presto se il termine “talebano”, divenuto sinonimo comune di “oscurantista” dalle nostre parti, ben al di là del suo significato letterale, lascerà il posto tra qualche anno a qualcosa di diverso. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Folgore, primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore del comando Isaf in Afghanistan

Insomma, pare proprio che, nonostante gli stracci che sono volati e le reciproche accuse durante la più strana campagna elettorale a memoria d’uomo negli Stati Uniti, Joe Biden cercherà di seguire, pur con tutti i temperamenti necessari, l’agenda impostata da Donald Trump per la fine delle operazioni in Afghanistan e per la conseguente conclusione della presenza militare americana nel Paese centroasiatico.

Se ne percepiscono i forti segnali dall’attivismo dell’amministrazione Usa per il tramite del segretario di Stato Antony Blinken, latore di una bozza di “Afghanistan Peace Agreement” presso le parti in causa che faccia uscire dallo stallo il processo iniziato con l’accordo di Doha il febbraio dell’anno scorso. Infatti, il tempo è veramente tiranno e si avvicinano i segnali della prossima “fighting season”, per usare la triste terminologia che si è imposta al posto della tradizionale sequenza stagionale, a causa dell’ininterrotta e ormai cronica guerra che attanaglia il Paese da quarant’anni, cioè dall’invasione sovietica del 1979.

Al riguardo, la bozza di accordo del quale si è avuta un’anticipazione informale, lascia trasparire la fretta e la preoccupazione dell’amministrazione Usa per una soluzione che con Trump sembrava a portata di mano, ma che nasconde alcuni nodi dai quali non si può prescindere. Nodi recepiti a livello Nato anche dal segretario generale Jens Stoltenberg che nel corso della recente riunione dei ministri della Difesa dell’Alleanza ha evidenziato l’impossibilità di piantare baracca e burattini ora, in una situazione di assoluta indeterminatezza. In sostanza, un abbandono dell’Afghanistan nei tempi brevissimi che erano stati concordati al febbraio del 2020 pare assolutamente non credibile, a meno di non dichiarare il sostanziale fallimento degli “End State” politici e politico-militari posti a base della pianificazione dell’Alleanza. Al contrario, si dovrebbe rendere necessario un incremento delle misure di Force Protection per evitare che la permanenza in teatro di livelli di forze poco significativi facciano aumentare i rischi per l’operazione.

La bozza stabilisce alcuni principi generali ai quali si dovrebbe informare anche la Costituzione definitiva della Repubblica, frutto del processo di pacificazione. In essa, sono indicati anche i passaggi intermedi per arrivare a questa, a partire dall’implementazione di un cessate-il-fuoco effettivo e dalla creazione di un governo di transizione che porti a nuove elezioni nazionali. La durata di tre mesi di astensione dagli attacchi, in precedenza ritenuta conditio sine qua non per poter poi procedere con i passi successivi, pare ormai inattuabile vista la vicinanza del mese di maggio, ma è evidente che non si andrà troppo per il sottile, cronometro alla mano, per verificare il rispetto delle tempistiche sottoscritte a Doha. Ma a parte questi aspetti di carattere organizzativo, ci sono problemi di carattere concettuale e politico ancora irrisolti.

Tra questi, la composizione del governo di transizione, che per i talebani dovrebbe escludere l’attuale presidente Ashraf Ghani, considerato illegittimo dopo la risicata vittoria ottenuta alle ultime elezioni, ma soprattutto la valenza delle prossime elezioni in quanto tali, alle quali tale governo dovrebbe condurre. Per gli ex seguaci del Mullah Omar, infatti, l’adozione della liturgia delle democrazie occidentali rappresenterebbe una seppur parziale sconfessione della loro tradizionale retorica anti occidentale, anche se hanno dato ampia prova di acume politico nell’accettare compromessi, come quello raggiunto in Qatar, essenziale per un loro ritorno da quasi-vincitori a Kabul.

Da parte del governo locale e della Nato, vi è poi, naturalmente, il timore che un cambio di regime porti a una negazione di alcuni importanti traguardi che ci si era imposti, tra cui i “diritti” con particolare riferimento a quelli delle donne, e questa rappresenterebbe una teatrale sconfitta degli scopi umanitari e sociali che l’Alleanza ha da sempre sbandierato, come se le esigenze geostrategiche e politico-militari dell’operazione si riducessero alla lotta al burka. Cosa assolutamente non credibile, ovviamente.

Per questo, la bozza del documento in questione, abbandona l’intransigenza dimostrata in altre occasioni, quando per la Nato (e per gli Usa in particolare) la pacificazione pareva impossibile senza la punizione del cattivo di turno, fosse esso Saddam, Milosevic o Gheddafi, per rimanere ai più recenti. Il riferimento a una riconciliazione nazionale, che escluda vendette giudiziarie e procedimenti a carico degli accusati degli innumerevoli crimini di questi ultimi vent’anni, compare così per la prima volta in un documento scritto a Washington, rappresentando in un certo senso la pietra tombale sulla velleità di esportare la democrazia con le armi, con la quale la Nato si è data una nuova missione dopo la caduta della Cortina di ferro.

Certamente, la conclusione di questo processo dipenderà molto dalla cooperazione di molti co-interessati, che gli Usa vorrebbero coinvolgere in un tavolo negoziale comune. Tra questi, il Pakistan, che da sempre ospita i più importanti santuari della resistenza talebana, con particolare riferimento alla Shura di Quetta, ma anche la Russia che guarda con interesse all’Afghanistan dai tempi dello Zar. E dopo la voce grossa usata da Biden contro Vladimir Putin dal suo insediamento al posto di Trump, questa potrebbe essere un’occasione per riaprire un dialogo che dalla Libia, all’Ucraina, alla Siria ed ai Paesi Baltici sembrava sul punto di soccombere. Certamente, verranno interessate anche Cina e Iran, quest’ultimo molto influente nella Regione occidentale e al quale va riconosciuto parte del merito del contenimento dei danni alla regione di Herat da parte dei talebani prima dell’intervento americano.

Infine, l’amministrazione Usa vorrebbe che il processo negoziale vedesse l’attiva partecipazione di Ankara, sostanzialmente rimasta poco più che alla finestra in questi vent’anni di operazione Isaf/Resolute Support, ma pronta da sempre ad assumere un ruolo di primo piano nel centro Asia turcofono che alimenta i sogni neo ottomani di Recep Erdogan.

Insomma, vedremo presto se il termine “talebano”, divenuto sinonimo comune di “oscurantista” dalle nostre parti, ben al di là del suo significato letterale, lascerà il posto tra qualche anno a qualcosa di diverso. Certo è che il vuoto lasciato dai Buddah di Bamian trasformati in polvere in uno degli atti più brutali contro uno dei massimi simboli della storia dell’umanità dovrebbe spingerci a una certa prudenza in merito. Anche se la fine di una guerra infinita val bene un po’ di oblio.



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