Il peso della legge islamica nella nuova Costituzione, il ruolo di Ashraf Ghani e un complesso cessate-il-fuoco proprio mentre si affaccia una nuova recrudescenza. Il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, spiega la situazione in Afghanistan alla luce del nuovo piano di Joe Biden, non così diverso, nelle intenzioni, da quello di Trump. E per l’Italia?
È da qualche anno che, con parsimonia e circospezione, si parla di “accordi di pace” per l’Afghanistan. Se le anime candide accendono il cuore con la speranza, altri, più smaliziati, fanno molta fatica a trattenere un sorriso. Chi ha ragione? Quando le cose sono così confuse, hanno sempre ragione tutti. Allora è evidente che occorre cercare di riordinare le idee, capire e rimettere ogni cosa al suo posto. Proviamoci.
Che l’Afghanistan sia “resiliente” (aggettivo un po’ abusato) nei confronti della pace ce lo dicono due secoli di Storia, a partire dalle tre guerre del Grande gioco per l’Asia Centrale. Nella prima guerra anglo-afghana (1839-1842) gli inglesi furono sconfitti. Nella seconda (1878-1880), che aveva lo scopo di contrastare l’espansione russa, dopo alterne vicende, nel 1880 gli inglesi compresero che non era il caso di rimanere sul territorio nemmeno un giorno di più. La terza volta, nel 1919, furono invece gli afghani che li attaccarono in India con un esercito inferiore in tutto, ma rinforzato da tribù combattive, orgogliose e con forte anelito all’autonomia. Anche questa volta agli inglesi non andò per niente bene, visto che decisero di rinunciare ai propri interessi nel Paese, lasciandolo al suo destino.
Se tale “resilienza” (da qui in poi non userò più questa parola) ha sempre reso durissima la vita al nemico esterno, non è che all’interno le cose vadano meglio. Il frazionamento delle etnie e dell’Islam, ma anche la compartimentazione del territorio, ostacolano qualsiasi impresa. I tempi della monarchia forse sono stati i più tranquilli, almeno fino all’uccisione di re Mohammed Nadir Shah nel 1933 e, successivamente, fino alla defenestrazione del successore, Mohammed Zahir Shah, cui nel 1973 è succeduto Mohammed Daud Khan, a sua volta assassinato nel 1978. Il Partito Democratico Popolare il cui leader è stato alla fine assassinato dagli “studenti coranici”, ha aperto la strada all’Unione Sovietica, costretta poi a lasciare il campo sotto la pressione della guerriglia. È questo il periodo in cui varie fazioni di mujaheddin confluiscono nelle fila dei talebani. Il resto, dopo le Twin towers, è storia dei giorni nostri. Questo è l’intricatissimo pasticcio in cui si sono cacciati gli americani con la “War on Terror” di George Bush, dalla quale ancora oggi sembra impossibile uscire.
A dire il vero, molto pragmaticamente, ma con decisione e tanto pelo sullo stomaco, Donald Trump nel giugno 2019 non ha esitato a dare il via a una “prima fase” del processo di pace attraverso trattative dirette, con un primo accordo tra le delegazioni talebana e statunitense firmato a Doha tra il mullah Baradar e l’ambasciatore Khalilzad, il 29 febbraio dell’anno scorso. Quattro i punti principali: rilascio dalle due parti di un certo numero di prigionieri; impegno dei talebani a rompere con al-Qaeda e l’Isis; promessa di dialogo tra telebani e governo; uscita delle truppe straniere dal territorio. In effetti Trump, poco prima di lasciare, ha davvero iniziato un consistente ritiro (oggi, dei 140mila uomini a suo tempo dispiegati da Barack Obama pare ne rimangano solo 2.500). Anche la restituzione dei prigionieri, si dà per certo, è già iniziata. Ora la bacchetta da direttore è nelle mani di Joe Biden, al quale, tra le dita, è però rimasto anche il cerino. Da buon democratico multilateralista, ora sta cercando di condividerlo con l’Islam politico di Qatar e Turchia. In quanto all’accordo, l’informazione ufficiale è ancora ferma alle quattro avare pagine del primo comunicato, dove non risultano accenni al ruolo delle donne ed ai diritti civili.
Anche i talebani si sono mossi verso una “seconda fase”, e nel novembre 2020 sono iniziati i primi contatti con il governo afghano, in una cerimonia in Qatar con presenti mullah Baradar, il capo del Consiglio di riconciliazione Abdullah-Abdullah e Mike Pompeo, allora segretario di Stato. Poi tutto si è fermato, quando i talebani sono usciti allo scoperto, dichiarando di non voler colloquiare con il presidente Ghani ancora in carica. Il quale, tuttavia, mirando a un secondo mandato, non ha alcuna intenzione di lasciare.
Nel frattempo entra in funzione Joe Biden, che non rinnega la decisione di Donald Trump e, secondo indiscrezioni del Washington Post, ha già pronto un documento per l’avvio di una “terza fase”. Quella che, nelle sue intenzioni, dovrebbe consentire l’uscita dallo stallo dei colloqui inter-afghani. Il documento, che sarebbe già all’esame dei talebani, prevede un compromesso: l’attuale governo dovrebbe essere sostituito “ad interim”, per approntare una nuova Costituzione, più gradita agli insorti, e trattare la cessazione del fuoco .
Gesto dal sapore rinunciatario, ma di buona volontà, che consentirebbe ai talebani di ritornare al tavolo, anticipando di fatto una loro vittoria. È noto che l’unico cambio della Costituzione per loro accettabile dovrebbe prevedere la prevalenza della legge islamica, con buona pace per i diritti civili e delle donne, che in alcune aree si stanno timidamente affacciando. Un altro problema è quello della cessazione del fuoco, che la bozza di Biden ripropone come identica a quella di Trump, sinora sistematicamente violata. Il terzo problema è Ashraf Ghani, che può essere rimosso solo con la forza, quasi certamente a favore di Abdullah Abdullah.
Con l’arrivo della primavera, che ha sempre coinciso con una recrudescenza delle iniziative talebane, si prospettano tempi ancora duri per tutti. Joe Biden, in particolare, si trova preso tra due fuochi. Interessante, a proposito, un recente commento della redazione di Orizzonti Politici: “Procedere al ritiro delle truppe entro aprile 2021, come previsto dagli accordi di Doha, consegnerebbe l’Afghanistan nelle mani dei talebani, ristabilendo lo status quo pre-invasione. D’altro canto, rinnegare l’accordo nel momento di massima forza dei talebani da vent’anni a questa parte getterebbe altra benzina sul fuoco, aprendo un nuovo capitolo di violenza all’interno di questo conflitto infinito”.
E i volonterosi della Nato? Ci siamo anche noi, e con pochi altri continuiamo a ripetere il mantra di Jens Stoltenberg: “Siamo entrati assieme, e usciremo assieme”. Come frase ad effetto, è davvero bellissima. Non dimentichiamoci, però, che inglesi, francesi e spagnoli sono già usciti, cogliendo un’ottima occasione prima che scattasse la trappola. Forse facciamo ancora in tempo a ripensarci: abbiamo lavorato tanto, la nostra coscienza è pulita, lasciamo un buon ricordo e non è escluso che, nel tempo, potremmo anche aver notizia che i nostri buoni semi stanno iniziando a germogliare. Abbiamo l’Iraq che ci attende.